Pino Guidolotti

Pino is back! Foto e disegni 1970-2015

May-June 2015

Pino Guidolotti

Pino is back! Foto e disegni 1970-2015

May-June 2015

TEXTS BY
Eugenio Alberti Schatz e Denis Curti

Pino Guidolotti, a versatile and unconventional artist who has captured an entire generation through his eyes of a protagonist, is back with recent and previously unexhibited work.
Leading fashion photographer in the 80s and 90s, Guidolotti has portrayed celebrities, artists, directors, architects, designers and actors; he ha salso masterfully conveyed iconic places, architecture and great sculpture from Palladian Villas to the work of Bernini.

Stay hungry, by Eugenio Alberti Schatz

La vera audacia consiste nell’essere interamente se stessi.
Man Ray

Uno sguardo affilato, inquieto, perennemente insoddisfatto, che scava, raschia e indaga come un bracco italiano alla ricerca di un tartufo bianco. Pino Guidolotti si muove in quella sottile striscia di terra fra arte e fotografia che oggi può sembrare main stream ma che negli anni ’80 certamente non lo era. Si avverte un certo piglio di leggerezza, uno sganciamento dall’ossessione tecnica, il non sentirsi obbligati a “portare a casa” la bella foto e il coraggio di togliersi il corsetto dei generi (per dirla tutta, se ne infischia dei generi). Lo spirito guascone lo si coglie nelle opere, nella vita, anche nella conversazione, quando sembra soppesare più le parole da non dire che quelle da dire. 
Guidolotti insegue il senso delle immagini che crea come se cavalcasse nella prateria: i suoi motori primi sembrano essere la curiosità, la gioia della scoperta, la rimozione delle gabbie mentali e un oscuro senso del bello. Per non parlare della libertà con cui sceglie temi e soggetti. 
Questo spiega l’assoluta imprevedibilità delle sue campagne: due nuotatori ripresi dall’alto come se il fotografo planasse quasi per caso sopra di loro, in mongolfiera e lentamente; una celebre attrice di teatro ritratta come in una vetrina di Amsterdam; una coppia di attore e scrittrice con le dita dei piedi in primo piano; una sessione in un parco acquatico sulla Costa Azzurra sugli schiavi del leisure, che forse anticipa il gusto metafisico-sociale di Adrian Paci o al contrario si riconnette a Savinio e Sironi; la modella malinconica che scivola come un cigno sui marmi del palazzo… Le architetture, tante architetture palladiane. Le sculture, tante sculture appassionate del Bernini, che del marmo fa marzapane. E i volti, tanti, tantissimi volti, una quadreria di volti, ciascuno ripreso con un quid che ci ricorda l’intuizione di Sciascia sul potere della fotografia di cogliere l’entelechia, cioè la tensione dell’individuo a realizzare se stesso secondo leggi proprie. 
Guidolotti ha fatto studi artistici, poi è sceso nell’arena della fotografia, dove comunque molto ha fatto sull’arte e dintorni, non ultima la sua amicizia con Gombrich, e quando ha riposto l’obiettivo, l’arte è venuta a riprenderselo per la collottola, come un elastico. E così si è rimesso a disegnare, a fare sculture con i materiali petrosi e arrugginiti del Salento, a copiare dal vivo fotogrammi di film… No way, dopo una vita il suo occhio è ancora affamato di bellezza. Non si è dimenticato la sezione aurea e non ha smesso di mettersi umilmente al servizio di un’idea dell’armonia che ci deve pur essere da qualche parte, vicino o lontano. E che gli umani, per loro stessa natura, non possono fare a meno di sognare. Questa è la lezione superbamente semplice di un maestro. Welcome back, Pino!

Stay Foolish, by Eugenio Alberti Schatz

Forse un giorno la fotografia, se glielo consentiremo, ci mostrerà quel che la pittura ci ha già mostrato, il nostro autentico ritratto, e donerà allo spirito della rivolta, esistente in ciascun essere realmente vivo e sensibile, la sua voce plastica duratura.
Man Ray

In anni abbastanza recenti sei stato spesso in India. Che cosa ha rappresentato per te?
L’India mi ha fatto conoscere le puzze. Ci sono stato per otto anni di fila, dai venti ai trenta giorni ogni volta. Ho anche letto dei manuali di simbologia indiana, ma non mi è rimasto molto, si vede che non mi sono impegnato abbastanza. E in fondo, la parte esoterica non mi interessava molto. Mi interessava fotografare. Il progetto è nato da John Eskenazi, uno dei più importanti dealer di arte orientale di Londra. L’ho conosciuto in occasione di un ritratto a lui e suo padre, antiquario di via Montenapoleone, commissionatomi da Vogue. Con lui si parlava a lungo di quale doveva essere il punto di vista e di come superare i problemi, per esempio come evitare le interferenze dell’arredo urbano o quali tempi per la luce impostare, visto che noi si andava nel mese del cielo di plastica, quando la luce è monotona, senza mai una nuvola e ricorda un sacchetto bianco della coop. L’India è viaggi, fatica, spostamenti, non c’è sempre c’è il Taj Mahal ad aspettarti. Certo, nulla rispetto alla fatica che avevano fatto gli antichi a realizzare certe meraviglie. Alcune volte capita che arrivi a un sito, un tempio, una caverna, e ti domandi come diavolo avessero fatto a partorire queste meraviglie armati di un semplice martellino. 

Che emozioni ti suscita la scultura indiana, a te che hai mirabilmente ritratto le statue del Bernini?
La scultura indiana è deformata. Bernini mantiene le proporzioni umane, rispetta la matematica, imprime sempre la stessa forma, la stessa sintassi. In India invece abbiamo le danzatrici a forma di svastica, sempre in movimento, i Ganesh obesi con la proboscide, e gli Shiva bellissimi, eleganti, immobili, che ti guardano dall’alto con un leggero sorrisetto. Sembrano dei radiatori. Credo ci sia un nesso fra i due mondi, si tratta solo di scoprirlo. Stiamo parlando di manufatti dell’uomo.

Spostiamo un po’ indietro la lancetta del tempo. Che rapporti hai avuto con la moda? Ti piaceva fare servizi di moda?
Era un lavoro come un altro. Alla fine degli anni ’80 ho lavorato con una certa continuità per i giornali. Dovevo fare un servizio ogni settimana. In particolare, con Vittorio Corona, direttore di King e Moda, si era stabilita una bella intesa. Mi lasciavano completamente libero, ero apprezzato proprio per il fatto di essere estraneo al sistema della moda. Non avevo realizzato nemmeno un catalogo per uno stilista! Io ero interessato alla questione scenografica, alla messinscena teatrale se vuoi. Insomma, ero un privilegiato.

Uno dei filoni forti del tuo lavoro è il ritratto di persone che sono implicate con architettura, arte, letteratura, teatro… Perché ti ha appassionato tanto il ritratto?
Il ritratto è prima di tutto un incontro. Ci si stringe la mano, ci si siede, si beve qualcosa, si inizia a parlare… Molto spesso il ritratto è anche un’autopsia visiva del loro ambiente, delle case in cui vivono o dello studio in cui lavorano. Per fare uno scatto, capitava di stare con loro una giornata intera… Poi c’è sempre qualcuno che ti spinge in una direzione, le cose non succedono a caso. Renato Olivieri, scrittore lui stesso e papà del commissario Ambrosio, impersonato al cinema da Ugo Tognazzi, dirigeva l’inserto Millelibri, dell’editoriale Giorgio Mondadori. Fu lui a incoraggiarmi, voleva che fotografassi gli scrittori a casa loro. Così feci Sciascia a Racalmuto, Eco a Milano… Sciascia fu molto gentile e paziente con me, seppi solo dopo che era già molto malato. Poi ci fu il capitolo dei designer: Ettore Sottsass, Aldo Cibic… E poi gli artisti. Mi ricordo che andavo in via Paolo Sarpi alla sera per incontrare Mario Merz, sempre incazzato nero con l’umanità. I personaggi della scena culturale sono egocentrici, e si prestano volentieri solo se sanno che vanno a finire su un giornale. Altrimenti è difficile.

Perché a un certo punto hai mollato il colpo e sei andato via da Milano?
Milano non mi dava più niente come lavoro. Guardavo il ponte di via Farini e l’edificio basso delle ferrovie lì accanto, e mi sentivo alla periferia di Bratislava. Per tirarmi su, andavo al Cimitero monumentale a passeggiare fra le tombe, ci sono un sacco di donne nude, sai, anche se di marmo… 

E così hai riparato in Salento, a Minervino. Visto da qui, difficile non pensare a un autoesilio, a una sorta di Aventino. Come te la sei cavata nella tua vita post-milanese?
C’è voluto un po’ di tempo per acclimatarmi, per un po’ di tempo non ho scattato fotografie. Poi, a poco a poco ho cominciato a guardarmi attorno e ho ripreso in mano la macchina. I vecchi fotografi fotografano gli alberi. Dopo gli alberi c’è stato Giuseppe, giardiniere, un vero personaggio, un po’ anarchico, forte lettore, ai tempi insegnante di educazione fisica. Non ha un carattere facile, mi ricorda mio padre, che sopportava all’infinito ma era sempre molto arrabbiato ed era costretto a fare ciò che non gli piaceva (mio padre era maggiordomo). Penso che Giuseppe sia un mio alter ego. L’altra eccezione è per un cacciatore che andava in bicicletta, mi è piaciuto come si è comportato e mi è venuta voglia di ritrarlo. Gli ho chiesto di puntare il fucile contro il cielo. In entrambi i casi, mi ha dato soddisfazione. Al sud hanno ancora una concezione solenne dell’immagine, si mettono in posa con fare importante, come i selvaggi o come noi nell’800. Non hanno paura della fissità della posa. E infatti acquisiscono una bellissima postura.

Difficile credere che tu sia stato fermo a lungo…
Infatti, ho cauterizzato il distacco dalla fotografia con il ritorno al disegno. Io sono nato disegnando, non è stato difficile. È come quando ciò che pensavi perso nel fondo del mare ritorna a galla una volta tolti i pesi che lo tenevano giù. È una cosa naturale, un affioramento. D’altronde, non ho mai dimenticato il rettangolo aureo di quando studiavo scenografia: lo schermo fotografico è la stessa cosa. Anche solo per guardare una foto ti devi mettere alla distanza giusta. È un boccascena. Come in teatro, dove il punto di vista ottimale è posto a una volta e mezzo la diagonale. Ah dimenticavo, c’è stata un terza eccezione: la foto del bagnetto alla mia nipotina, Nina, quando aveva poco più di un anno. Sembra un battesimo. Questa è l’ultima foto che ricordo.

La mostra ad Assab One non ti fa venire voglia di tornare alla fotografia?
Sì, mi piacerebbe rimettermi dietro l’obiettivo. E voglio comprarmi una macchina fotografica analogica. Ma certamente il mio approccio è cambiato. Oggi le cose mi trovano, mi vengono addosso, non sono io che devo andare a cercarle. Giuseppe è qui ed è il mio specchio, io mi rivedo in lui. Gli odori mi trovano, mi raccontano. Ho letto tre libri di matematica, io che non capisco nulla di numeri. La serie di Fibonacci mi affascina molto e ho scoperto che gli alberi ne sono influenzati in qualche modo. E gli scacchi, quel gioco per cui non ho mai avuto tempo… Non si può mica morire senza sapere come si gioca.

A proposito di influenze, chi sono stati i fotografi che sentivi vicino?
Romeo Martinez è stato per me un padre putativo. Era un catalizzatore formidabile a livello internazionale. Abbiamo passato molto tempo insieme, grazie a lui ho conosciuto i grandi fotografi del mondo. Poi direi Paolo Monti, un bocconiano doc molto acculturato che aveva una marcia in più, pur essendo nato come amatore. Willie Ronis era molto intelligente. Enzo Sellerio mi piaceva, era bello, alto. 

E le tue ascendenze culturali, i maestri a cui hai guardato?
Mi ha sempre interessato la fotografia surrealista. Senz’altro Man Ray. E poi Alvarez Bravo, ero molto attirato da lui.

Perché ti sei avvicinato alla fotografia?
Credo che la fotografia, come per altri come me che venivano dalla provincia, fosse un modo per uscire, per scappare. Uno dei miei primi reportage fu a Marsiglia, non avevo soldi, dormii in stazione, mangiai pane e patate, e andai sul molo a vedere le navi. Un modo eloquente per dire che volevo fuggire dal mio ambiente provinciale, non ti pare?

Grazie alla macchina fotografica, ti sei fatto degli amici importanti. Come Ernst Gombrich.
È una storia molto bella, quella della nostra amicizia, che si è protratta per decenni. Lui e la moglie Ilse si sono affezionati a me, forse perché come loro ero un migrante. Io mi bevevo le sue parole, ascoltarlo è stato un privilegio grande. Diceva che lui scriveva i libri pensando a un solo lettore, Panofsky. Nel 2002 al Warburg Institute è stata organizzata una commemorazione e in quell’occasione sono stati esposti i miei ritratti dal 1977 al 1996. Sull’invito hanno usato la foto in cui lui è su una scaletta da biblioteca e tiene aperto un grande in folio. L’immagine perfetta che definisce l’uomo di cultura mentre cerca di elevarsi e di elevare.

Che cosa pensi della grande diffusione che oggi ha l’immagine fotografica?
La gente sa guardare meglio di una volta, sa leggere le immagini, ha più strumenti di volta, senza dubbio. D’altronde è più facile guardare che leggere. Però non sarei così sereno. Sono belle e orribili tutte queste immagini, miliardi di scatti fatti con il telefonino. Pensa solo alle immagini che ci manda l’Isis, sono immagini porno. Ti fa vedere le cose che non puoi vedere o non vuoi v edere.

Ma nell’essenza, che cos’è una fotografia?
È una copia della vita. Se impari a copiare bene, forse col tempo diventi anche un creativo. E poi è un luogo di solitudine e di silenzio. A differenze del cinema, dove stai sempre in mezzo agli altri, come in gita scolastica, e devi gridare, dare ordini, fare sfuriate, metterti d’accordo. La fotografia è un messaggio da decifrare, sopra ci sono segnate alcune cose. Il quadro è un oggetto vivo, sente le variazione della luce. La fotografia è un cadavere, un oggetto bello e puro.

Hai mai fotografato un morto?
Mio padre. È una foto che mi piace. Il soggetto non si muoveva, non è stato difficile. È sepolto a Montefiascone, e lì abbiamo celebrato il funerale. Su questo ti voglio raccontare una storia, che sarebbe molto piaciuta a Danilo Kish. Devi sapere che sempre io ho una cotta per Curzio Malaparte, c’è stato un periodo in cui non si poteva dire perché era bollato come fascista. Leggendo la sua biografia, ho scoperto che il furgone dell’ospedale portava la sua bara da Roma a Prato fece una sosta a Montefiascone, dove gli autisti si fermarono a mangiare. Vedo nitidamente gli autisti che si abboffano, mentre fuori c’è Malaparte morto dentro il furgone. 

I tuoi rapporti coi giovani?
Io sono sempre inattuale. Loro sono i miei lettori ideali.

Prima mi hai detto che sei nato disegnando. Che cosa intendevi esattamente? E come sei passato alla fotografia?
Disegnavo sui tavoli di marmo, a casa di mia nonna. Copiavo i fumetti. I velieri, soprattutto i velieri mi piacevano un mondo. Allora a Verona i due unici negozi di fotografia avevano vetrine opulente piene di macchine rigorosamente tedesche, come le Leica o le Rolleiflex. Poi, per i poveri, c’era una macchina autarchica orribile, la Bencini. Inutile dirti che la mia prima macchina fu una Bencini. Solo a Bologna, durante l’Accademia, ebbi finalmente una Nikon F.

Che ricordi hai del tuo periodo di studi all’Accademia di Bologna?
Eravamo in pieno ’68, c’erano assemblee dalla mattina alla sera. Io arrivavo da Verona e mi infilavo nei cinema per vedere i matinée. Per darti un’idea del clima che si respirava, all’esame di scenografia ho portato un testo di Marivaux tutto segnato con le mie note. Mi hanno chiesto di fare una sintesi, e io mi sono rifiutato, dicendo che il mio lavoro era la produzione di quell’oggetto. Ho lasciato perdere il diploma. Poi però il professore mi fece lavorare come assistente al Teatro Comunale di Bologna.

Ti ricordi la tua prima mostra di fotografia?
La mia famiglia paterna è del viterbese, per la precisione di Capodimonte, che si affaccia sul lago di Bolsena. Mio zio era il capo dei pescatori. A Capodimonte c’era un piccolo macello dove si uccidevano vacche e maiali. Il sangue e la morte non mi hanno mai impressionato più di tanto. Ho usato il bianco e nero. Le foto le ho esposte all’Accademia di Bologna, dove studiavo.

Ci sono dei posti dove vorresti andare?
Il Nord. Sogno di andare a Nord. Il Nord della Scozia, per esempio. 

Sei in cerca di rarefazione. Allora non è vero che mordi?
Alla fine dei conti, sono una persona gentile.

Text by Denis Curti

Martinez is, in my humble opinion, the father confessor of many photographers
who came to him begging for absolution. His greatest sin is never having asked
them for any offerings for his worship of photography. He knows each of us better
than we know ourselves.”
Henri Cartier-Bresson.

Difficile collocare Pino Guidolotti all’interno dei ristretti generi della fotografia: paesaggio, ritratto, reportage, street photography, moda, still life… anche perché il nostro li frequenta tutti e come un decatleta ottiene ottimi risultati nei diversi ambiti.  Calciatore mancato, anche se di grande talento, è stato uno dei protagonisti della fotografia milanese degli anni ottanta, per poi sparire dalla scena trasferendosi al sole della Puglia. Disegnatore, fotografo e affabulatore Guidolotti è oggi il maestro assoluto della sottrazione. Non solo perché si è sottratto dalla fotografia, ma perché credo davvero che sia un vero poeta della sintesi. I tratti (disegni) e le sue immagini (in bianco e nero) sono un raro e nobile esempio di un lavoro a togliere che mira all’essenza totale. 
Resta, comunque, quell’inflessione veneta che lo rende meno credibile e dopo poco che lo conosci, capisci che vorrebbe essere sempre da un’altra parte. Irrequieto, solitario, curioso. Ma se lo interroghi a fondo e con pazienza, alla fine, scopri che non è proprio così. Lui sta fermo sul bordo di un’ipotetica fotografia e ti guarda, ti annusa, ti misura e se decide che ci sei (davvero) allora anche lui rimbalza come una pallina da flipper e comincia a raccontare. 
La prima cosa che mi dice riguarda Romeo Martinez (da qui la citazione iniziale). Erano amici, così come è stato (lo è ancora?) amico dei grandi della fotografia, dell’arte, della letteratura, del cinema e del teatro. Con Martinez, grande direttore della rivista Camera tra gli anni cinquanta e sessanta, Guidolotti condivide una complicità progettuale che, di rimando, lo riporta al rigore e all’austerità di Paolo Monti. Il percorso è tortuoso e me ne rendo conto. Ma è proprio dalla ruvidità delle cose, dall’attrito tra i pensieri che posso nascere certe immagini. Quella di Guidolotti è una fotografia totale. Le sue fotografie, mi pare, nascono da un’urgenza interiore. Guidolotti si esprime secondo criteri estetici precisi per creare relazioni, interazioni e restituire l’idea di un sentimento trasversale capace di sviluppare armonia, equilibrio e forse precarietà. Forse è per questo che se ne è andato, forse è per questo che è ritornato.

Denis Curti – marzo 2015

Biography

Pino Guidolotti is one of the most famous Italian photographers. During his career he has worked with major Italian newspapers and publishing houses ranging from fashion, portrait, architecture. Moreover, he has devoted his attention above all to art and reproduction of the artistic heritage, also influenced by the his long friendship with Ernst H. Gombrich.

MONOGRAPHS
A.Rosenauer, Donatello. Opera omnia, Milan 1993.
R.Wittkower, Bernini. The sculptor of the Roman Baroque, Milan 1990, London 1997.
Beltramini. Andrea Palladio: Atlas of Architecture, Venice 2000.
G.Beltramini e H.Burns. The Venetian Villas, Venice 2005.
M.A. Avagnina. The Teatro Olimpico in Vicenza, Venice 2005.
Progetto Viven, 200 Venetian Villas
Davide Gasparotto, The horses by Francesco Mochi.
John Eskenazi, The Classical India sculpture.

SOLO EXHIBITIONS (selection)
2014. Inaugurazione di me stesso, Cinema del Reale, Specchia (LE)
2006. Volti di Architetti, Yellow Fish Gallery, Montreal.
2006. Volti di Architetti, Centro Palladio, Vicenza.
2005. Le Ville Venete, Centro Palladio, Vicenza.
2003. Carlo Scarpa. Lopera, Centro Palladio, Vicenza.
2001. Le ville del Palladio, Centro Palladio, Vicenza.
2001. Memorial E. H. Gombrich, Warburg Institute, London, U.K.
2001. Pino Guidolotti, Galleria Il Diaframma, Milan.
2001. Pino Guidolotti, Casa del Mantegna, Mantova.
2001. Pino Guidolotti, Photographer Gallery, London, U.K.
2001. Pino Guidolotti, Musèe Reattu, Arles, France.
2001. Photographie Italienne, Chalon sur Saone, France.
2001. Pino Guidolotti, Galleria Il Diaframma, Milan.
1974. Pino Guidolotti, Krakow, Poland.


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