Chiara Camoni

(Di)segnare il tempo

curated by Claire Burrus

June-July 2006

Chiara Camoni

(Di)segnare il tempo

curated by Claire Burrus

June-July 2006

“I’ve got an assistant. It’s my grandmother and she’s ninety-three years old. She’s been drawing stars for months. At night she often dreams of eating them.”

This is how Chiara Camoni introduces the book that contains one hundred pictures of stars her grandmother drew in 2006, bearing witness to an uncommonly affectionate, caring relationship that takes shape in the sharing of a poetic ritual.

Other works accompany the original drawings on display at Assab One, including nine photos from the series Organic, the video Mefite, works created in Naples in 2005 with Salvatore Esposito, and the installation Reliquiari, three works that narrate the meditations on time and its transformation that influence all the artist’s work.

Press release

“Ho un’assistente. É mia nonna ed ha novantatre anni. Per mesi ha disegnato stelle. Di notte spesso sogna di mangiarsele.”

Chiara Camoni introduce così il libro che raccoglie la riproduzione dei cento disegni di stelle realizzati da sua nonna nel 2006, testimoni di una relazione affettiva e di cura reciproca non comune che prende forma nella condivisione di una ritualità poetica.

Accompagnano i disegni originali, in mostra ad Assab One, le  nove foto della serie Organic, il video Mefite, lavori realizzati a Napoli nel 2005 con Salvatore Esposito, e l’installazione Reliquiari, tre lavori che raccontano la riflessione sul tempo e sulla trasformazione che informa tutto il lavoro dell’artista.

Le fotografie rappresentano situazioni architettoniche e paesaggi urbani dove il tempo e l’uomo hanno operato involontariamente interventi e modifiche: cogliere la selvaggia bellezza di queste sovrapposizioni è un paradosso reso possibile da uno sguardo attento, tenero e pieno di compassione.

Il video è girato in una valle (Mefite), luogo di culti sacri in epoca sannita prima e romana poi, ritenuto un accesso agli inferi, un diaframma tra due mondi in cui gas tossici che emanano dal sottosuolo provocano la morte rapida di qualunque essere viventi vi si avvicini.

I reliquiari sono piccole scatole, sculture in osso realizzate dall’artista, potenziali contenitori di cenere o altro, evidenza di come ogni cosa che finisce può accoglierne un’altra che ha inizio.

Le opere abitano uno spazio sproporzionato in cui le contaminazioni prodotte dal tempo e la stratificazione delle funzioni sono state mantenute volontariamente evidenti. Lo spettatore viene così indotto ad incontrarle lungo un percorso simbolico e attraverso un’esperienza sensoriale che le anticipano e le amplificano: sotto lo sguardo dell’artista ogni apparente degrado si trasforma in bellezza, in un processo che non ha mai fine.

La collaborazione con altre persone, l’appropriazione dichiarata di situazioni e materiali coerenti con l’oggetto principale delle sue riflessioni (il tempo) sono diventate  per Chiara Camoni un modo di procedere rituale e sedimentato, che le consente di sviluppare linguaggi diversi e di far crescere il proprio lavoro  attraverso un continuo processo di offerta e restituzione, come accade ormai da anni con i disegni di sua nonna che danno il titolo alla mostra e al libro.

Biographies

Chiara Camoni è nata a Piacenza nel 1974. Vive e lavora tra Milano, Napoli e Piacenza.
Diplomata in scultura all’Accademia di Brera, per tre anni ha tenuto cicli di conferenze presso il museo archeologico Nazionale di Napoli sul rapporto tra arte antica e magia.  È direttore artistico presso l’Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali di Napoli.
Mostre principali: 2006 Vanessa Chimera, Luca Bertolo, Chiara Camoni, Spazio A Contemporanearte, Pistoia. 2005  Camoni – Di Maggio, Galleria Duetart, Varese; Aperto per lavori in corso, a cura di Francesca Pasini, PAC, Milano; In corso d’opera, Fabbrica del Vapore, Milano; Padiglione Italia Out of Biennale, Trevi Flash Art Museum, Trevi (PG); Sofar, a cura di Raffaella Guidobono, Sevenseven Contemporary Art, Londra; Edizione Straordinaria/Le Case d’Arte 1985-2005, Assab One, Milano. 2004  Citazioni, Galleria Le Case d’Arte, Milano; Uscita Pistoia, a cura di Giuseppe Alleruzzo e Samuel Fuyumi Namioka, Spazio A Contemporanearte, Pistoia; Assab One, a cura di Roberto Pinto, Assab One, Milano. 2003  Invito, Sette artisti in collezioni private, a cura di Gemma Testa, Acacia, Milano; Sopra Sotto Davanti Dietro, a cura di Claire Burrus, Centro Culturale Francese, Milano. 2002  La Grande Madre, Galleria Le Case d’Arte, Milano.

Marco Senaldi 
è critico e teorico di arte contemporanea; insegna Cinema e Arti Visive all’Università di Milano Bicocca. Ha curato mostre come Cover Theory – L’arte contemporanea come reinterpretazione, catalogo Scheiwiller, 2003; recentemente ha pubblicato Enjoy! Il godimento estetico, Meltemi, 2003, e Van Gogh a Hollywood. La leggenda cinematografica dell’artista, Meltemi, 2004. Collabora con Flash Art, il manifesto, Exibart Onpaper, Aroundphotography.

Claire Burrus ha iniziato la sua carriera di gallerista nel 1973 aprendo a Parigi la galerie LE DESSIN, che presenterà artisti quali Marcel Jean e Bob Wilson. Dopo aver chiuso nel 1984 la prima galleria, Claire Burrus ne apre una seconda nel 1985, che prende il suo nome, con un programma dedicato soprattutto ai giovanni artisti francesi apparsi sulla scena all’inizio degli anni 80: Marie Bourget, Felice Varini, Philippe Cazal, Philippe Thomas, Michel Verjux. Il programma si aprirà progressivamente ad altre generazioni, per esempio con una mostra dedicata a Paul-Armand Gette, e alla scena internazionale: Charles Ray, Hitsch Perlman, Marthe Wéry, Rachel Whiteread. Dopo aver chiuso la galleria nel 1998, Claire Burrus si è dedicata, tra altre attività, alla cura dell’archivio e della successione di Philippe Thomas (Les readymades appartiennent à toute le monde®) e al Magazin di Grenoble. Dal 2002 ha curato come consulente il programma d’arte contemporanea del Centre Culturel Français di Milano.

(Di)segnare il tempo, by Marco Senaldi

L’installazione che dà il titolo alla mostra è fatta di tanti fogli che contengono tante stelle disegnate a matita. Queste stelle però non sono opera dell’artista, ma della sua “assistente”. Una cosa abbastanza normale nell’arte contemporanea, in cui il valore dell’abilità manuale è andato progressivamente assottigliandosi rispetto al valore attribuito all’idea, alla concezione mentale dell’opera. Ma non è normale il fatto che l’assistente che ha realizzato a mano i disegni che vedete sia la nonna dell’artista, e che abbia un’età tre volte maggiore di lei.

Questa semplice notizia cambia completamente il modo con cui guardiamo questi disegni – proprio come cambia il nostro metro di giudizio quando guardiamo lo scarabocchio di un bambino e diciamo con condiscendenza che “è bello”. Ma, esattamente, che cosa cambia nel nostro sguardo? Ossia: che cosa ci aspettiamo da un disegno fatto da una persona che ha raggiunto un’età che si avvicina al secolo?

Effettivamente, se si osservano con attenzione queste minime costellazioni di astri, come pure i disegni fatti realizzare in precedenza –  riproduzioni di capolavori dell’arte o di insetti, pesci, uccelli – non può sfuggire che, pur non rispondendo ai canoni rappresentativi classici, non possono nemmeno essere ridotti ad opere naïf, con tutto l’alone “infantile” che un simile termine si trascina dietro. O meglio, benché in questi disegni si percepisca un’incertezza quasi puerile, è come se questo elemento fosse preso in considerazione a partire dal punto più lontano, come se fosse improvvisamente anche invecchiato – come se fosse passato, in un solo attimo, per quella presa di coscienza artistica che Picasso sintetizzava nella sua famosa frase “Ci ho messo tutta la vita per imparare a disegnare come un bambino”.

Così, non riusciamo letteralmente a capire neanche più cosa stiamo guardando. Di primo acchito, i segni che osserviamo ci appaiono come stelle – ma non potrebbero essere invece degli asterischi, o forse delle croci, o gli aculei innumerevoli di un infinito filo spinato disteso a mo’ di protezione contro l’angosciante bianco del foglio? E ancora: perché i segni che dapprima si dispongono in forme abbastanza regolari, lentamente ma inesorabilmente cominciano a spostarsi, a rompere le righe e le colonne, a danzare sul foglio, a costruire configurazioni inaudite, a scompigliarsi, e magari poi a riprendere un andamento ritmico e ritrovare una parvenza di norma, per poi ancora piombare nel caos, e così via?

Per quanto possa sembrare strano, trattandosi di semplici asticelle eseguite a matita, questi segni sembrano voler conservare, come dei geroglifici, il loro geloso segreto, e restano ostinatamente impenetrabili come dei graffiti preistorici – esprimono qualcosa di radicalmente estraneo che però, proprio per il fatto di assumere le sembianze di un’espressione, per il fatto di ostentare chiaramente una “volontà di significato”, sono anche tremendamente prossimi, anzi sono come “segnati dentro di noi”, inscritti nel nostro stesso percorso di senso.

Ciò che guardiamo mantiene dunque, moltiplicata, tutta la sua inspiegabile ambiguità: da un lato non capiamo quanto influisca sulla nostra percezione del disegno la consapevolezza che è stato realizzato da una persona tanto anziana, dall’altro questa stessa consapevolezza ci spinge inevitabilmente a cercare sempre ulteriori interpretazioni di ciò che vediamo, che sentiamo tuttavia sempre illecite, abusive, alla fin fine vane.
E se l’opacità dell’enigma risiedesse fondamentalmente nel punto cieco dal quale ci sforziamo di guardare a questi segni – dal fatto che li leghiamo a un’idea univoca e ristretta di Tempo?

Di fatto, occorre ammettere che i filosofi non hanno dedicato attenzione sufficiente al significato profondo, metafisico, della vecchiaia, relegandone la riflessione a commenti consolatori, come nel caso della trattatistica antica e medievale, come il De senectute di Cicerone, rievocato in un recente pamphlet di Norberto Bobbio. Tuttavia, come ricordava Gilles Deleuze, sono esistiti anche dei pensatori post-classici, arrivati dopo la normalizzazione platonico-aristotelica, che hanno sviluppato concezioni radicalmente sovversive dell’idea di tempo. Gli Stoici antichi in particolare opponevano alle classiche tre dimensioni temporali passato-presente-futuro un altro tempo, un tempo dell’istante e dell’evento, sempre imprendibile perché sempre scisso tra passato e futuro, sempre già-stato e sempre a-venire, sempre troppo-tardi e sempre in-anticipo. Il nome del tempo classico è Krònos, il tempo del calendario e degli orologi, il tempo suddivisibile in parti, cronologico e cronico, il tempo scandito, appunto, dal cronometro. Ma – e qui sta il genio dello stoicismo – questo tempo non è tutto il tempo. Ad esso si oppone un altro genere di temporalità, l’Aiòn: il tempo incalcolabile, il cui scorrimento è perpetuamente o troppo lento o troppo veloce per le vite degli uomini – il tempo delle lentezze geologiche o quello dell’istante infinitesimale in cui tutto cambia, l’Aetas latina, l’Aevum medievale o quello delle ére che si perdono negli abissi dell’universo…

Il duplice enigma custodito da queste costellazioni di grafite risiede forse in questo: da un lato vorremmo cercare di afferrarne il senso ripercorrendone il labirinto formale a partire dal fatto che sono opera di una persona cronologicamente anziana – dall’altro questa stessa ricerca non sortisce nulla, anzi ci ripropone sempre di nuovo il nostro sguardo divenuto enigmatico esso stesso, opacità interpretativa che ci si ritorce contro.
L’interpretazione fallita, che diventa essa stessa l’enigma, cela però anche la propria soluzione. Finché continuiamo a pensare alla condizione cronologica di chi ha fatto questi disegni, restiamo incatenati a una sola delle facce del Tempo – restiamo in Krònos e dimentichiamo l’Aiòn, l’altra faccia sfuggente per definizione, il carattere intrinsecamente ambiguo del “momento” in cui li percepiamo, e il fatto che essi schivino audacemente ogni riduzione a un già-fatto o un già-detto, o a un da-farsi o da-dirsi.

Il tempo, si direbbe, non fa altro che “segnare”: segna i visi come le coscienze, i fogli degli artisti come i deserti del mondo; il tempo, si sa, lo conosciamo solo dai suoi segni, cosa sia in sé, nessuno può dirlo. Sì, è vero, nessuno può dirlo – ma forse qualcuno può (di)segnarlo; forse, sfuggire ai “segni del tempo” si può, a patto di “segnare il tempo”, di marcarlo e renderlo oggetto di senso, radicalmente ambiguo ma presente, còlto sul fatto, messo di fronte a noi.
Ha fatto dunque bene l’artista a delegare questo compito all’anziana “grande madre”, con una complicità forse possibile solo tra donne. Questo le ha permesso di “saltare il tempo” e di regalarci un istante – questo – in cui quelli che vedete cessano di essere semplici disegni e divengono, per citare ancora Gilles Deleuze, “un po’ di tempo allo stato puro”.

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