Fausta Squatriti

Ascolta il tuo cuore, città

October-December 2011

Fausta Squatriti

Ascolta il tuo cuore, città

October-December 2011

With texts by Elisabetta Longari and Jacqueline Ceresoli

Ogni ciclo di opere di Fausta Squatriti è un Requiem. Non c’è posto per la speranza, tutto da molto tempo, forse da sempre, è calcinato e votato alla sparizione. Grigio. Arso. Cinereo.
E l’effetto sembra essersi ulteriormente rafforzato da quando Squatriti rivolge il proprio sguardo apocalittico di Medusa verso la città, luogo della vita pulsante anche aldilà del mito progressista e futurista.

Non presso Fausta Squatriti. Qui, nel suo regno, la città ha perso ogni presenza viva, non una persona, un cane, un uccello, neppure un topo. Restano gli edifici, scenari tetri e belli, disadorni e terribili.
Il sentimento che cresce nell’osservatore è quello della pietas, della tenerezza: ormai lasciati soli, i luoghi risultano anch’essi come morti, sembrano gabbie vuote, tagliole abbandonate su un terreno arido. Neanche quegli elementi che presentano uno spiccato aspetto ludico, come le piccole case-giocattolo, riescono a essere vagamente gioiosi, anzi perfino più tragici delle costruzioni di pietra scura.
Nonostante il titolo scopertamente preso in prestito da Savinio, non v’è traccia della sua ironia e della sua leggerezza, piuttosto questo riferimento sembra quasi nascere dall’intenzione di porre una sottolineatura “al contrario”, proporre un rovesciamento d’atmosfere.
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Elisabetta Longari, settembre 2011

Fausta & Squatriti, by Jacqueline Ceresoli

Qual è lo scopo di mettere a confronto le sculture  pop di Fausta Squatriti degli anni  ‘60  con  il  ciclo di opere  del 2011 “Ascolta il tuo cuore, città” apparentemente così distanti nel tempo per temi, materiali e combinazioni figurative ?
La scelta si svela nel condurre il discorso critico sulla sua opera verso l’identificazione di una coerenza non tanto nello stile, spesso elaborato e modificato, quanto nel concetto stesso di creatività alla ricerca della forma di volta in volta più adeguata per esprimersi nel corso di anni in cui la sua esperienza umana si è modificata, e con essa la sua consapevolezza, conducendola a creare diversi linguaggi, senza mai ripetersi stancamente.
L’energia, la tensione verso l’innaturale, l’illogico, il disequilibrio, il mettere insieme gli opposti, sono elementi che si ritrovano in tutto il suo lavoro, e qui sta la congiunzione tra le sculture colorate degli anni ’60 e i lavori assai più drammatici del 2011, messi insieme, a confronto e compendio, nella mostra ad Assab One.
Va dunque accettata la sua doppia identità di scultrice, (partita dalla pittura, dal disegno sensibile, informale dei suoi esordi) ossessionata dai volumi solidi, dal desiderio di plasmare proporzioni geometriche in simbiosi con poesia e scrittura, arti che Squatriti ha sempre praticato materializzano paradossi in virtù dei linguaggi polivalenti di cui si serve.
La parola, come i volumi “taglienti” sono un’arma di ambivalenze, di interpretazioni, di narrazioni e di ambiguità semantiche che l’autrice, a partire dal 2002,  racchiude dentro a complesse installazioni  per  “anatomizzare” il pensiero che si traduce nel gesto del fare  ciò che  non esiste in natura,  evidenziando il rapporto tra  forma, immagine e, alle loro origini, parola pensata. Ricerca che però inizia nel ormai lontano ‘85, mettendo in relazione la superficie con il volume, il vero fotografico con l’astratto geometrico, in opere di grandi dimensioni.
Procediamo con ordine. Fausta, negli anni  Sessanta, ha  vent’anni, è bellissima e carica di entusiasmo giovanile e vive da protagonista la Milano capitale  delle avanguardie, del design, dell’editoria  e della moda, che si andava affermando in quegli anni come evento culturale. Frequenta Lucio Fontana, Alik Cavaliere, Arnaldo e Giò Pomodoro, Baj, Dangelo, Sanesi, Alviani, Arturo Schwarz, e molti altri artisti dell’epoca.  I critici Guido Ballo, Dorfles, e in seguito Apollonio e Argan, si interessano alla sua ricerca, ne diventano amici. Nel rapporto di scambio con i “maestri ” cerca il confronto  per  crescere più velocemente  nella sua ricerca artistica, bulimica di sapere e  di esperienze,   tesse rapporti  con poeti, Sanesi, Quasimodo, Finzi, Gramigna, si appassiona alla poesia anglosassone, Eliot, Thomas, e ne illustra i testi, frequenta in compagnia della madre, il poeta Lina Angioletti, artisti e poeti giovani, intellettuali e musicisti. Affascina i maestri, seduce i coetanei.
Tiene la prima personale nel 1960  e quattro anni dopo, con la  collaborazione di Sergio Tosi, avvia una casa editrice di edizioni numerate e multipli: questa fu una straordinaria occasione  per aprirsi a  contatti internazionali.
Il grande gallerista Alexander Iolas espone le sue sculture a Ginevra e New York e le affida la progettazione dei cataloghi e manifesti per le sue gallerie, conosce  e diventa amica di Man Ray che le presenta Marcel Duchamp, lavora come editore con Fontana, Max Ernst, Pol  Bury, Twombly, Nevelson, e tanti altri.  Frequentano  il  suo atelier –casa Jean Tinguely e Niki de Saint –Phalle,  Soto, Tilson, Evelina Schatz, e artisti e intellettuali di passaggio a Milano, quando la città era fervida nella ricerca e gli stranieri vi venivano per respirare l’aria del nuovo.
Nella prima mostra, ancora studente alla Accademia di Brera, nel ’60, espone  solo disegni, ma subito dopo i disegni si fanno grandi di misura, complessi già nella tecnica del pastello da cui ricava inedite sfumature, e Dorfles nel testo introduttivo alla personale del ’64 li definisce come “urformen cosmiche o microcosmiche”.
Nel 1965 inizia a lavorare per cicli tematici, pratica che non ha ancora abbandonato  e la contraddistingue, con l’obiettivo di definire sempre più il rapporto tra i linguaggi che l’esperienza innovativa del ‘900 consente, nella mescolanza dei generi.
Crea la serie “Bagno d’aria” (1965-66), ispirata alla spazialità e luminosità del Tiepolo, grandi tele dipinte a tempera magra, alcune delle quali inserite  in vecchie cornici. Ed ecco qui la prima comparsa di un oggetto nelle sue opere, prelevato dalla realtà, non come “ready-made”  ma come presupposto di contrasto, spaesamento tra la pittura e la cornice: l’intento è di ibridare arte e vita.
A partire dal 2005 la rielaborazione di “objects trouvès” all’insegna di un pluralismo linguistico, diventa una prassi metodologica e poetica  che sostituisce il rigore geometrico degli anni precedenti, e il calcolo matematico di superfici e volumi.
Nel 1966 Fausta, pittrice, sperimenta la scultura colorata, realizzata per mano altrui con tecnologie più industriali che artigianali, laccata a spruzzo, metodo di avanguardia specie in Italia, dove ancora si dubitava che una donna potesse essere davvero artista, specie se bella e magari di buona famiglia, e si scuoteva la testa di fronte a sculture che non fossero di marmo o bronzo perfino se a farle era un genio come Lucio Fontana. Ma il lavoro di Fausta seduce il pubblico e la critica dapprima a Stoccolma, poi a New York, Huston, Caracas, Tel Aviv, Ginevra, con quel modo personalissimo di dare forma al suo poliedrico desiderio di fisicità con tentazioni cromatiche decorative d’ispirazione Pop.
Come tutti gli artisti di quella irripetibile generazione, combina, mescola, azzarda  contrasti tra materiali industriali (acciaio, ferro laccato, plexiglas, poliestere) e materiali tradizionali (ferro, legno, rame): intanto l’America conquista l’Europa  con la Pop art  e il Minimalismo. A Milano, dopo lo Spazialismo e l’Arte Cinetica e Programmata, si afferma il Nouveau Réalisme.
In questo vorticoso crescendo culturale Squatriti individua la sua dialettica degli opposti, sperimentando codici che ancora oggi la distinguono: procede per contrasti formali, materici e cromatici, elabora forme paradossali come  “macchine” del pensiero, mettendo in scena installazioni stranianti, in bilico tra il naturale e l’artificiale, con l’obiettivo di creare ossimori di forte impatto visivo. Con il passare del tempo, la sorpresa, la fantasia, l’elemento ludico e giocoso impresso nelle sue forme eccentriche, connaturate alle prime sculture colorate e alla giovinezza, sono sostituite dalla ragione  vampirizzata  dall’esperienza del dolore, filtrata  dalla sofferenza e dalla  maturità.
La sua vita, gli umori e gli stati d’animo si visualizzeranno in strutture costruttiviste, rigide, squadrate, già dai primi anni ’70, come sintesi  di un processo di riduzione che approderà, fino alla metà degli anni ’80, a forme  neocostruttiviste in ferro che abbandonano ogni indulgenza piacevole, affidando la forma al rigore monocromatico del ferro e dell’acciaio. Le sue opere  di quel periodo plasmano “emozioni fredde”, sono il frutto di calcoli  matematici che sfociano in forme geometriche, alla ricerca del volume ideale in rapporto allo spazio, con l’intento di approfondire  la percezione delle sovrapposizioni di strutture primarie tagliate e ribaltate come fogli di carta, e invece sono volumi che in questo modo danno vita ad equivalenze, immaginarie, nel vuoto.
L’analisi, la proporzione compositiva, la “squadratura” del concetto si sostituiscono alla decorazione del periodo giovanile e il pieno darà  spazio al vuoto, attraverso complesse installazioni che dialogano con lo spazio. Parallelamente alle sculture, anche le sue poesie, che mai si affidano all’utilizzo di romanticheggianti sensazioni personali, sono scandite da sentenze più che da versi, sono aforismi lapidari che feriscono la ragione.
Squatriti poeta e scultrice inventa forme plurime che provocano paradossi, attese, enigmi, coinvolgendoci all’interno della sua vitalità sospesa.
Nel ciclo denominato “In segno di natura“ (1988-89) Squatriti, che riprende nelle sue mani il linguaggio della pittura e della grafica, inizia ad adottare la soluzione del dittico e dalla speculazione astratta sullo spazio che si concretizza in forme chiuse, geometriche, ideali e assolute, e introduce temi di origine letteraria e speculativa, filosofica, come quello iniziale della Natura, simbolo dell’origine della vita, violata e stuprata dalla “cattività” umana. In questo periodo le sue opere sono basate sull’assemblaggio plastico–cromatico e risolte in combinazioni e sovrapposizioni di immagini, affiancate da volumi primari, ossessivamente elaborate come espressione di una metaforica logica di smascheramento della fragilità umana: la ragione che ordisce distruzioni “ad interim”, altalenante tra catastrofe e costruzione.
Nella serie “I segni del conflitto“ (1990-92), compare la fotografia come “collante” tra l’immagine e il volume scultoreo e il tema della “banalità del male” sarà declinato in diversi cicli, fino ad oggi.
La fantasia ha lasciato il posto alla razionalità e l’ironia diventerà cinico e dolente sarcasmo (ancora una volta ossimoro) del suo desiderio di indagare l’istinto del male connaturato all’uomo, inseguendo autopsie di Bellezza possibile e irraggiungibile.
Ma torniamo alle opere degli anni Sessanta esposte ad Assab One di Milano, al commento di Dorfles che, in occasione delle sue prime sculture colorate, di lei scrisse: “Questo connubio tra elementi dall’aspetto altamente tecnologico e macchinoso -netti e politi, in perspex e acciaio inossidabile- e le escrescenze, le proliferazioni decorative di festoni e ghirlande solidificate, distrugge ogni prevedibile forma dell’oggetto e gli conferisce una natura equivoca tra il biologico e il meccanico”. (nota 1)
Dal 1967 le sue sculture si focalizzano sulla dialettica tra volume geometrico e forme più libere e cromaticamente ammiccanti, abbinando soluzioni euclidee a figure irregolari, escrescenze acuminate e germinanti con richiami involontari a Depero, assai più giocoso, alla maniera del “Corrierino dei piccoli”, ma specialmente a Balla, anche se gli intenti sono diversi, così come lo è la tecnica usata.
Claudio Cerritelli, nella monografia edita da Mazzotta dedicata all’artista, le  ha così commentate:  “Più che sculture, in questa fase di ricerca, Squatriti realizza oggetti fantastici, personificazioni di umori sensoriali, desideri mentali che diventano tangibili, sensazioni erotiche che galleggiano tra un pensiero e l’altro, alla ricerca di una possibilità di racconto, di mediazione tra il soggetto creativo e il lettore. I colori usati richiamano spesso odori o profumi, alludono al gusto dell’olfatto, all’atto di toccare e di sentire il fruscio che l’aria produce tra un materiale e l’altro, mettendo in azione una totalità di percezioni che si usa chiamare sinestesia” (nota 2)
Questa brillante sintesi dell’autore di un testo analitico dedicato alla sua ricerca analizzata dal 1957 al 2001, evidenzia l’intento narrativo dell’artista già nella scultura, rivelandosi nel tempo  sempre più ambigua  nella sua ricerca poetica. L’autrice da una parte tende a un ordine costruttivo, percettivo e analitico, ma dall’altra ricerca narrazioni possibili tra forme e colori attraverso combinazioni figurative in bilico tra razionalità ed erotismo, espresso senza ricorso alle immagini deputate all’erotismo. Questa poetica  della dialettica tra gli opposti si svilupperà in una serie di opere razionaliste e barocche al tempo stesso, cariche di una tensione sensuale di “berniniana”  memoria, in cui il rigore costruttivista si unisce al valore decorativo e la freddezza diventa erotismo. Nella lucida e spietata logica matematica di combinazioni di algida bellezza, Squatriti ibrida il quadrato di Malevic e di Sol Lewitt con disordini umani: la casualità e la natura sono rappresentate da reperti organici, contrapponendo forme molteplici, prelievi fotografici anche di particolari ingranditi in modo da fare loro perdere riconoscibilità per entrare in un mondo evocativo diverso dal reale da cui sono partiti, in contrapposizione con forme geometriche appositamente studiate, che ne rappresentano la sintesi simbolica.
Squatriti si riconosce proprio per questo pluralismo segnico che, nel bene  e nel male, non si dimentica.
Questa originalità è una dote rara nel panorama contemporaneo, in cui si  trovano soluzioni formali date come anonime banalizzazioni delle  avanguardie storiche o come nostalgiche rivisitazioni del passato più recente.
Il suo operare sui materiali e sulla forma per definire il pensiero visivo e lo spazio dell’interiorità, diventa linguaggio autoreferenziale e si riconosce anche per la sua capacità di affrontare lo stesso tema iconografico, declinato in molteplici variazioni; tutti i suoi cicli materializzano l’essenza e l’energia delle forme in rapporto tra volume e immagine, segno e significato, all’insegna di una dialettica tra lo spazio e lo spettatore, mettendo a fuoco una maniacale ricerca dell’origine delle cose e del loro significato simbolico.

ASCOLTA IL  TUO CUORE CITTA’

Nella serie intitolata “Ascolta il tuo cuore, città”, liberamente ispirata al romanzo di Alberto Savinio pubblicato nel 1944, alla vigilia dei più pesanti bombardamenti sulle città, esposta per la prima volta ad Assab One di Milano, dopo una anticipazione alla “Fondazione Calderara” di Vacciago, per  Squatriti la città diventa il presupposto di un viaggio onirico nello spazio e  nel tempo, surreale, fino al cuore della metropoli, esangue e rantolante  dopo una apocalisse. Si tratta di appunti di viaggio, un presupposto poetico scritto con le immagini e gli oggetti che raccontano la solitudine della umanità e delle sue bellissime città così genialmente costruite, abbandonata al destino di essere vittima e carnefice di un mondo da lei stessa creato, sbagliato, ma anche grandioso, ponendo gli oggetti in relazione alle immagini. Tanto dolore produce la bellezza, e il suo declino. Come al solito l’artista è coerente e rispetta il rigore compositivo e l’unità del molteplice, ma ci sorprende per una leggera asimmetria che rivela cambiamenti in atto; compaiono elementi storti, piani inclinati nella  composizione, creando disagi e ossimori visivi. Ogni oggetto oltre ad appagare la sua vocazione plastico–volumetrica, esalta la funzione  narrativa e simbolica dell’opera, facendo dialogare diversi materiali, elevati a soggetti di storie di città. Forse qui, Mosca, Praga, Parigi, L’Aquila, Milano, Bratislava, Venezia, una ignota città tedesca degli anni di prima della guerra, e chissà quali altri luoghi urbani, non è molto importante la loro riconoscibilità, sono rappresentati immobilizzati, diventano recuperi affettivi, con trittici e dittici di forte impatto emozionale. Le sue città stranianti, rarefatte ed estetizzanti, ci proiettano in un eterno passato e diventano potente metafora dell’uscita dalla storia del mondo occidentale, paventato ma non improbabile.
In questa serie Squatriti usa tre elementi base: geometria compositiva nella organizzazione della molteplicità, fotografia come mediazione tra l’oggetto e la scultura, mentre presenta gli oggetti come rielaborazione di reperti della quotidianità, incorniciati dentro a scatole “poveriste” realizzate ex-novo con vecchie assi e legni bruciati.
Il tempo ha agito sugli oggetti: questi stanno entro scatole della memoria volutamente irregolari, pensate come contenitori di reliquie ma costruite troppo in fretta e con materiali improvvisati, reperti dell’umanità, fissati nel ricordo da consegnare all’eternità dentro le loro piccole bare.
La  tensione geometrica costruttivista dell’artista polisegnica, affiancata da elementi asimmetrici dell’incompiuto, così come del trascurato e distrutto,  segna un passaggio importante nella evoluzione del suo lavoro, sempre più  letterario e metamorfico, quasi “bergsoniano”, intriso com’è di vita e di passioni. La vita è essenzialmente disordine. Squatriti, dopo trent’anni di rigide impalcature e razionalismi vari, sostegno, forse, a difficoltà esistenziali da inghiottire diligentemente, dopo aver percorso il tunnel della sofferenza personale, della morte di persone care, del tradimento, dell’abbandono e della solitudine, elabora una scrittura sempre più  autobiografica, anche se della propria biografia non utilizza le figure; e attraverso questa dolorosa autoanalisi, che dal dolore personale si estende a quello del mondo cui prestare la maggiore attenzione, lentamente agirà anche sulle opere, smantellando le solide certezze e la pretesa, del tutto utopica e riconosciuta come tale dall’artista già nel momento suo del fare,  di ordinare il caos, o almeno di mostrare come sarebbe bello che fosse, non tanto l’ordine del caos universale, ma quello del caos procurato per dolo; così inizia a decostruire se stessa. Si aprono le forme chiuse, le griglie e le prospettive, l’artista modifica le regole che si era imposta come assoluti  formali, ma senza perdere la vocazione compositiva e la sua identità di antropologa della cultura Occidentale. Osservando queste immagini di città  estetizzanti e metafisiche, percorriamo un viaggio a ritroso nel tempo, dove letteratura e arte si fondono in una relazione profonda e diventano memoria storica, stretta nella morsa della ricerca di Bellezza, come se l’Arte non fosse prodotta dagli uomini ma da esseri perfetti, superiori.
Le sue immagini iconizzano città dolenti, svuotate dai propri abitanti, questa volta esposte in un ex edificio industriale, neo cattedrale dell’estetica apocalittica contemporanea, e proprio in questo spazio, creato per produrre lavoro e rimastone privo, un relitto innocente oltre che eloquente, si caricano di significati simbolici. Osservando opere che parlano di abbandono in un luogo abbandonato e riconvertito ad altro uso senza cancellare le tracce del suo passato, ci assale una struggente e feroce rabbia per l’impegno che inesorabile si applica, a volte in nome del nuovo che avanza, per annullare la Bellezza, e proprio per questo le città rielaborate da Squatriti trasudano di un sensuale profumo di morte  e  freddezza neoclassica, che della morte aveva fatto la sua estetica.
L’artista si è immaginata intenta a raccogliere in fretta alcuni  reperti della  nostra civiltà industriale, tracce di “tempi  moderni ” alle soglie di una possibile apocalisse universale; e forse è l’ultima supersite del genere umano e a questo punto urge conservare un segno, a futura memoria.
Squatriti agisce sul disagio visivo attraverso ossimori e rielaborazioni  della  memoria, passando al setaccio il significato che gli oggetti suscitano, una volta distolti dalla loro funzione; in questo lavoro è “proustiana” nella frantumazione del linguaggio dadaista e di Joyce, i tre linguaggi rivoluzionari del secolo scorso, della “modernità” sulla quale ancora stiamo lavorando, pur essendo poco propositivi. L’autrice, antropologa dell’espressione, spiazza lo spettatore con combinazioni volutamente nostalgiche, con immagini dall’atmosfera livida agghiacciante come la  Morte. Nella sua ricerca di uno Spazio eterno e del Tempo, trova  testimonianze, ricordi di cultura materiale e di armonie perdute sotto gli strati dell’odio, non per scrivere una storia della città, ma per immobilizzare un’icona luttuosa della nostra civiltà da compiangere per molti suoi aspetto degenerativi.
La sua città è fuori dalla storia, è immobile, metafisica e immanente, rappresentata con fotografie simili a quelle che si trovano sulle tombe dei cimiteri “gotici”, dove tutto è ordine, calma, stabilità  e l’atmosfera è di triste e poetica bellezza.
Si tratta di installazioni ripartite in tre parti distinte, accorpate in un insieme irregolare ma studiatissimo, realizzate con foto digitali su carta da disegno, parti dipinte a mano a pastello, pigmento e altro, più le scatole di vecchi legni, asimmetriche, costruite in modo rozzo per contenere oggetti perfetti, in resina, gesso, fiori secchi, legni  bruciati, velluti e sete, conchiglie, foglie, reperti affettivi, antiche macchine fotografiche, flaconi che si suppone abbiano contenuto importanti liquidi. Gli oggetti sono composti come una natura morta di morandiana memoria, compresi i guanti da lavoro, intrisi di nero pece, forse intrisi di petrolio. In particolare emoziona una zolla  di terra  pietrificata, ordinatamente disposta nella sua scatola–bara: questi e altri reperti inquietano nella loro necrofila e struggente bellezza.
In questo ciclo di opere Squatriti adotta per la prima volta la tecnica di ingessatura degli elementi organici rivestiti di un bianco innaturale, e in questa  personale rivisitazione della Natura morta l’artista immobilizza la vita. I suoi Still-life congelano il racconto di una civiltà post-moderna sepolta sotto ceneri di memoria pompeiana, qui provocate da ipotetiche  esplosioni atomiche, ammantate da nubi tossiche.
Forse sono istantanee di un eterno presente, dell’Apocalisse imminente?
Sono un iperbolico reportage, all’artista è lecito perfino esagerare, drammatico nella sua fredda esposizione di fatti relativi a una città  dei morti.
In questa serie Fausta, animale di vita passionale & Squatriti, giudice e chirurgo plastico della ragione, sono gemelle separate ma unite e  procedono una stretta all’altra, per contrasti, legate visceralmente dalla volontà di raccontare utopia di bellezza servendosi di poesia, racconto, immagini e forme che trascrivono pensieri visivi rielaborando in chiave soggettiva il ready-made duchampiano, mutando agli oggetti veri la faccia sia facendone calchi da rendere in seguito in resina, sia con altri sistemi di manipolazione, recentemente attraverso il gesso, per lasciare la verosimoglianza spiazzante a oggetti di materia altra dal vero.
Icaro tra cadute e voli; l’artista in conflitto tra l’elemento apollineo e quello dionisiaco, tra crisi mistiche etiche ed estetiche, attraverso lo strumento della Bellezza si fa medium della condizione transitoria dell’esistente.
Passeggiando davanti alle opere della Squatriti in mostra ad Assab One attraversiamo secoli di Storia in pochi minuti e mi viene in mente la voce  fuori campo, attrice protagonista e invisibile del film “L’Arca  Russa” (2002) di Alexander Sokurov, che dice: “ Apro gli occhi e non vedo niente. Nessuna finestra, nessuna porta…ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti si mettevano in salvo come potevano”.

Note:
1 G.Dorfles, The Cloud-Eye, libro pubblicato in occasione della  mostra personale alla Kozmopolitan Gallery a  New York, 1969

2. Claudio Ceritelli, “Squatriti, fino all’ultimo  sangue i percorsi della ragione 1957-2001” , pag 11-12 , Mazzotta 2002

Text by Elisabetta Longari

Ogni ciclo di opere di Fausta Squatriti è un Requiem, anche quest’ultimo.
Non c’è posto per la speranza, tutto da molto tempo, forse da sempre, è calcinato e votato alla sparizione. Grigio. Arso. Cinereo.
E l’effetto sembra essersi ulteriormente rafforzato da quando Squatriti rivolge il proprio sguardo apocalittico di Medusa verso la città, luogo della vita pulsante anche aldilà del mito progressista e futurista; si pensi all’ipnotico Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, alla filmografia di Wenders, soprattutto ad Alice nelle cittàTokyo-GaIl cielo sopra Berlino e Lisbon Story, in cui anche i luoghi più fantasmatici sono comunque teatro di movimenti, fisici e interiori, di spostamenti e metamorfosi delle persone; perfino nel fosco futuro figurato in Blade Runner la città è sinonimo di brulichio e d’intrecci di esistenze.
Non presso Fausta Squatriti. Qui, nel suo regno, la città ha perso ogni presenza viva, non una persona, un cane, un uccello, neppure un topo. Restano gli edifici, scenari tetri e belli, disadorni e terribili.
Il sentimento che cresce nell’osservatore è quello della pietas, della tenerezza: ormai lasciati soli, i luoghi risultano anch’essi come morti, sembrano gabbie vuote, tagliole abbandonate su un terreno arido. Neanche quegli elementi che presentano uno spiccato aspetto ludico, come le piccole case-giocattolo, riescono a essere vagamente gioiosi, anzi perfino più tragici delle costruzioni di pietra scura.
Nonostante il titolo scopertamente preso in prestito da Savinio, non v’è traccia della sua ironia e della sua leggerezza, piuttosto questo riferimento sembra quasi nascere dall’intenzione di porre una sottolineatura “al contrario”, proporre un rovesciamento d’atmosfere. Eppure l’esprit (inteso come humor) abita trionfalmente la scrittura dell’ultimo romanzo breve e inedito di Fausta, Istruzioni per l’uso. 7 rue meynadier, da cui è stata tratta una vivida pièce teatrale presentata per la prima e unica volta[1] nel cortile della Fondazione Calderara a Vacciago, sede che ospitava contestualmente una piccola selezione di opere del ciclo legato alla città[2].
Se il testo di Savinio si articola in una serie di divagazioni scaturite dall’incontro con determinati luoghi cittadini, Squatriti prende invece spunto dalle indicazioni sul viaggio necessario per raggiungere la sua minuscola e affascinante casa di Parigi e dalle istruzioni per soggiornarvi rivolte a qualche amico che vi si recasse per la prima volta. In realtà lo scritto, come una lunga lettera che riproduce senza censure l’andamento del pensiero, passa continuamente dal piano pratico e prosaico a quello emotivo e riflessivo, secondo un metodo simile alle libere associazioni. Più che delle funzioni di una casa si parla del funzionamento di un animo.
Tornando ai fantasmi di città presenti nelle opere visive recenti, Squatriti preleva dal grande repertorio delle immagini di qualsiasi agglomerato urbano, scorci, edifici o elementi funzionali al gioco di slittamento su cui verte il suo linguaggio, riconoscibilissimo, innegabilmente autonomo e originale. Nelle sue installazioni combina più elementi appartenenti ad ambiti mediatici diversi, ma negli esiti non v’è nulla di più lontano dalla sensazione di precarietà, data per esempio dall’improvvisazione; anzi i materiali si organizzano secondo un criterio che segue un ordine compositivo preciso e specchiato, in qualche modo “classico”, basato su accordi formali e dimensionali governati da una simmetria mai assoluta ma basata sul concetto di variazione nella contiguità e continuità. Un linguaggio che si avvale di una sorta di naturale perfezione-imperfezione, come la crescita organica, ad esempio, di un albero.
Il coro meticcio di forme, tecniche e materiali che da corpo composito, articolato e multiforme all’opera, è composto da diversi “attori”: la fotografia della realtà urbana, la geometria della pittura e la presenza di oggetti usurati, imprigionati in piccole bacheche/bare di legno povero, tracce, brandelli, residui di un’esistenza ormai perduta.
Dell’uomo perlopiù non v’è traccia, gli oggetti gli sono sopravvissuti come zombie dissanguati. Soltanto in un “viale del tramonto”, compare, di spalle, una figura maschile che si sta allontanando; accanto a lei si apre come un’ala nera, che più che costituire una minaccia sembra invece alludere alla figura dell’angelo, che in questo caso viene “letta” necessariamente come sul punto di lasciare, anch’essa, la dimensione del visibile.
I rari brani di natura che Fausta ha immesso nel dialogo visivo hanno dovuto affrontare un trauma che ne ha compromesso definitivamente la bellezza e la vitalità. Terra combusta, rami incrostati e ricoperti di patine malate.
Non sembra esserci via di scampo per l’umanità, che eppure avendo saputo inventare tanta bellezza, allo stesso modo compiutamente dimostra grande abilità nell’applicarsi alla distruzione, all’annichilimento.

Elisabetta Longari, settembre 2011

[1] Domenica 25 settembre 2011, Fondazione Calderara, interprete Alberto Lombardo.
[2] Dal 2 luglio al 15 ottobre 2011, in occasione del festival Studi Aperti 2011 organizzato da Asilo Bianco, Ameno.

Biography

Fausta Squatriti, nata a Milano nel 1941, opera nelle arti visive e nella scrittura, e di questo flusso tra un linguaggio e l’altro ha fatto da sempre il perno della sua ricerca, espressa anche nella editoria d’arte, nella grafica, nella docenza. Questo intreccio di interessi e relazioni fa di lei, già nei primi anni ’60, una  artista ed editore che si è rapportata con parecchi grandi protagonisti delle avanguardie internazionali, sia per rapporti di amicizia che di lavoro.  Scoperta inizialmente da Pierre Lundholm, che la espone a Stoccolma, in seguito lavorerà per anni con Alexander Iolas, Denise Renée e Karin Fesel, esponendo le proprie sculture a New York, Tel Aviv, Huston, Ginevra, Honolulu, Caracas, Dusseldorf, Parigi, e sucessivamente anche in Italia, al Naviglio, da Marconi e alla Fondazione Mudima. Inizia ad insegnare nel ’77 all’Accademia di Belle Arti, Carrara, Venezia e Brera, a Milano.
E’ più volte invitata come visiting professor all’Academie des Beaux Arts a Mons e alla University at Manoa, a Honolulu. E’ invitata  a numerose Biennali internazionali di grafica e vince due premi alla International Print Biennial di San Francisco.
È curatrice della mostra storica “Colore” alla Biennale di Venezia dell’86, e suoi saggi sull’argomento sono pubblicati nei relativi cataloghi.
Nel ’92 fonda, con Gaetano Delli Santi, la rivista interdisciplinare Kiliagono pubblicata All’Insegna del Pesce d’Oro.
Nel ’97 crea con Francesco Leonetti il Teatro dell’autore in scena, brevi testi di artisti e poeti appositamente scritti, impegnati a gestirne la recitazione senza ricorrere all’attore, che esordisce alla Fondazione Mudima, Milano, con successive prove nell’ambito di “Ricercare” a Reggio Emilia, a Venezia per il “Festival della parola”, a Milano per “Teatri ‘90”, Teatro Franco Parenti e di nuovo alla Fondazione Mudima.
Nel 2000 è tra i soci fondatori di Milanocosa,  partecipando a diversi reading poetici, anche in concomitanza con la “Giornata Mondiale di Poesia”.
Attualmente collabora con l’associazione culturale “Novurgia” e “Asilo Bianco”, organizzando eventi  interdisciplinari.
Nel 2002 è uscita una monografia, curata da Claudio Cerritelli e Roberto Borghi, edita da Mazzotta, con testi dei curatori e prefatta da Ingo Bartsch, con una ampia antologia critica di chi si è interessato alla sua ricerca, da Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio, Rossana Bossaglia, Jacqueline Ceresoli, Elisabetta Longari, Angela Madesani, Antonio Porta,  Mario Cresci, Michail Pogarskij, Arturo Carlo Quintavalle, Man Ray, Roberto Sanesi, Evelina Schatz, Arturo Schwarz, Klaus Wolbert.
Come poeta pubblica con Vanni Scheiwiller, Manni, Book, Testuale, Tracce e collabora con testi critici a numerose riviste d’arte e di letteratura.
Nel 2006 pubblica il romanzo “Crampi” ed. Abramo. All’occasione Simona Confalonieri realizza un breve filmato , “Audacissima”.
Nel 2008 è andato in scena a Parigi al teatro “Mains d’oeuvre” lo spettacolo di danza “The stillest”, coreografia di Eric Senen, per il quale ha creato l’immagine per la scena, con musica di Davide Anzaghi.
Nel 2010 è uscito per Charta la monografia “Ecce homo”, con testi di Evelina Schatz, Elisabetta Longari, Angela Madesani, Michail Pogarskij, in russo, inglese, italiano, all’occasione della personale al Moscow Museum of Modern Art. Nel 2010 ha esposto a Mosca, al Darwin Museum ed a Brartislava, nella mostra “Alla gloria militar”, e in numerose mostre dedicate al libro d’artista, a Kiev, Rostov on Don, Mosca, Londra, Milano.
Nel 2009 ha vinto il premio di poesia “Scrivere donna”, con “Filo a piombo”, prefazione di Gilberto Finzi, edizioni Tracce, Pescara. Sempre nel 2011 espone al Centre Pompidou, Paris, nella mostra “Elles”.
Nel 2011 espone in una personale alla “Fondazione Calderara”, Vacciago, Lago d’Orta.