Fausta Squatriti

Ascolta il tuo cuore, città

October-December 2011

Fausta Squatriti

Ascolta il tuo cuore, città

October-December 2011

With texts by Elisabetta Longari and Jacqueline Ceresoli

Ogni ciclo di opere di Fausta Squatriti è un Requiem. Non c’è posto per la speranza, tutto da molto tempo, forse da sempre, è calcinato e votato alla sparizione. Grigio. Arso. Cinereo.
E l’effetto sembra essersi ulteriormente rafforzato da quando Squatriti rivolge il proprio sguardo apocalittico di Medusa verso la città, luogo della vita pulsante anche aldilà del mito progressista e futurista.

Non presso Fausta Squatriti. Qui, nel suo regno, la città ha perso ogni presenza viva, non una persona, un cane, un uccello, neppure un topo. Restano gli edifici, scenari tetri e belli, disadorni e terribili.
Il sentimento che cresce nell’osservatore è quello della pietas, della tenerezza: ormai lasciati soli, i luoghi risultano anch’essi come morti, sembrano gabbie vuote, tagliole abbandonate su un terreno arido. Neanche quegli elementi che presentano uno spiccato aspetto ludico, come le piccole case-giocattolo, riescono a essere vagamente gioiosi, anzi perfino più tragici delle costruzioni di pietra scura.
Nonostante il titolo scopertamente preso in prestito da Savinio, non v’è traccia della sua ironia e della sua leggerezza, piuttosto questo riferimento sembra quasi nascere dall’intenzione di porre una sottolineatura “al contrario”, proporre un rovesciamento d’atmosfere.
[…]

Elisabetta Longari, settembre 2011

Each cycle of works by Fausta Squatriti is a Requiem. There is no room for hope; everything has long been, perhaps has always been, scorched and destined to disappear. Grey. Burnt. Ashen.
And this effect seems only to have intensified since Squatriti turned her apocalyptic, Medusa-like gaze toward the city — that place of throbbing life, even beyond the myths of progress and futurism.
But not in Fausta Squatriti’s domain. Here, in her realm, the city has lost every trace of life: not a single person, dog, bird, not even a rat remains. Only the buildings endure — stark, beautiful, stripped down, and terrifying.
What rises in the viewer is a feeling of pietas, of tenderness: now abandoned, the places themselves seem dead, like empty cages, abandoned traps lying on arid ground. Even the elements that might seem playful — such as the small toy-like houses — fail to bring any real sense of joy; if anything, they appear even more tragic than the dark stone structures.
Despite the title, explicitly borrowed from Savinio, there is no trace here of his irony or lightness; rather, the reference seems intended as an inverted echo, a reversal of atmospheres.
[…]

Elisabetta Longari, September 2011

Fausta & Squatriti, by Jacqueline Ceresoli

Qual è lo scopo di mettere a confronto le sculture  pop di Fausta Squatriti degli anni  ‘60  con  il  ciclo di opere  del 2011 “Ascolta il tuo cuore, città” apparentemente così distanti nel tempo per temi, materiali e combinazioni figurative ?
La scelta si svela nel condurre il discorso critico sulla sua opera verso l’identificazione di una coerenza non tanto nello stile, spesso elaborato e modificato, quanto nel concetto stesso di creatività alla ricerca della forma di volta in volta più adeguata per esprimersi nel corso di anni in cui la sua esperienza umana si è modificata, e con essa la sua consapevolezza, conducendola a creare diversi linguaggi, senza mai ripetersi stancamente.
L’energia, la tensione verso l’innaturale, l’illogico, il disequilibrio, il mettere insieme gli opposti, sono elementi che si ritrovano in tutto il suo lavoro, e qui sta la congiunzione tra le sculture colorate degli anni ’60 e i lavori assai più drammatici del 2011, messi insieme, a confronto e compendio, nella mostra ad Assab One.
Va dunque accettata la sua doppia identità di scultrice, (partita dalla pittura, dal disegno sensibile, informale dei suoi esordi) ossessionata dai volumi solidi, dal desiderio di plasmare proporzioni geometriche in simbiosi con poesia e scrittura, arti che Squatriti ha sempre praticato materializzano paradossi in virtù dei linguaggi polivalenti di cui si serve.
La parola, come i volumi “taglienti” sono un’arma di ambivalenze, di interpretazioni, di narrazioni e di ambiguità semantiche che l’autrice, a partire dal 2002,  racchiude dentro a complesse installazioni  per  “anatomizzare” il pensiero che si traduce nel gesto del fare  ciò che  non esiste in natura,  evidenziando il rapporto tra  forma, immagine e, alle loro origini, parola pensata. Ricerca che però inizia nel ormai lontano ‘85, mettendo in relazione la superficie con il volume, il vero fotografico con l’astratto geometrico, in opere di grandi dimensioni.
Procediamo con ordine. Fausta, negli anni  Sessanta, ha  vent’anni, è bellissima e carica di entusiasmo giovanile e vive da protagonista la Milano capitale  delle avanguardie, del design, dell’editoria  e della moda, che si andava affermando in quegli anni come evento culturale. Frequenta Lucio Fontana, Alik Cavaliere, Arnaldo e Giò Pomodoro, Baj, Dangelo, Sanesi, Alviani, Arturo Schwarz, e molti altri artisti dell’epoca.  I critici Guido Ballo, Dorfles, e in seguito Apollonio e Argan, si interessano alla sua ricerca, ne diventano amici. Nel rapporto di scambio con i “maestri ” cerca il confronto  per  crescere più velocemente  nella sua ricerca artistica, bulimica di sapere e  di esperienze,   tesse rapporti  con poeti, Sanesi, Quasimodo, Finzi, Gramigna, si appassiona alla poesia anglosassone, Eliot, Thomas, e ne illustra i testi, frequenta in compagnia della madre, il poeta Lina Angioletti, artisti e poeti giovani, intellettuali e musicisti. Affascina i maestri, seduce i coetanei.
Tiene la prima personale nel 1960  e quattro anni dopo, con la  collaborazione di Sergio Tosi, avvia una casa editrice di edizioni numerate e multipli: questa fu una straordinaria occasione  per aprirsi a  contatti internazionali.
Il grande gallerista Alexander Iolas espone le sue sculture a Ginevra e New York e le affida la progettazione dei cataloghi e manifesti per le sue gallerie, conosce  e diventa amica di Man Ray che le presenta Marcel Duchamp, lavora come editore con Fontana, Max Ernst, Pol  Bury, Twombly, Nevelson, e tanti altri.  Frequentano  il  suo atelier –casa Jean Tinguely e Niki de Saint –Phalle,  Soto, Tilson, Evelina Schatz, e artisti e intellettuali di passaggio a Milano, quando la città era fervida nella ricerca e gli stranieri vi venivano per respirare l’aria del nuovo.
Nella prima mostra, ancora studente alla Accademia di Brera, nel ’60, espone  solo disegni, ma subito dopo i disegni si fanno grandi di misura, complessi già nella tecnica del pastello da cui ricava inedite sfumature, e Dorfles nel testo introduttivo alla personale del ’64 li definisce come “urformen cosmiche o microcosmiche”.
Nel 1965 inizia a lavorare per cicli tematici, pratica che non ha ancora abbandonato  e la contraddistingue, con l’obiettivo di definire sempre più il rapporto tra i linguaggi che l’esperienza innovativa del ‘900 consente, nella mescolanza dei generi.
Crea la serie “Bagno d’aria” (1965-66), ispirata alla spazialità e luminosità del Tiepolo, grandi tele dipinte a tempera magra, alcune delle quali inserite  in vecchie cornici. Ed ecco qui la prima comparsa di un oggetto nelle sue opere, prelevato dalla realtà, non come “ready-made”  ma come presupposto di contrasto, spaesamento tra la pittura e la cornice: l’intento è di ibridare arte e vita.
A partire dal 2005 la rielaborazione di “objects trouvès” all’insegna di un pluralismo linguistico, diventa una prassi metodologica e poetica  che sostituisce il rigore geometrico degli anni precedenti, e il calcolo matematico di superfici e volumi.
Nel 1966 Fausta, pittrice, sperimenta la scultura colorata, realizzata per mano altrui con tecnologie più industriali che artigianali, laccata a spruzzo, metodo di avanguardia specie in Italia, dove ancora si dubitava che una donna potesse essere davvero artista, specie se bella e magari di buona famiglia, e si scuoteva la testa di fronte a sculture che non fossero di marmo o bronzo perfino se a farle era un genio come Lucio Fontana. Ma il lavoro di Fausta seduce il pubblico e la critica dapprima a Stoccolma, poi a New York, Huston, Caracas, Tel Aviv, Ginevra, con quel modo personalissimo di dare forma al suo poliedrico desiderio di fisicità con tentazioni cromatiche decorative d’ispirazione Pop.
Come tutti gli artisti di quella irripetibile generazione, combina, mescola, azzarda  contrasti tra materiali industriali (acciaio, ferro laccato, plexiglas, poliestere) e materiali tradizionali (ferro, legno, rame): intanto l’America conquista l’Europa  con la Pop art  e il Minimalismo. A Milano, dopo lo Spazialismo e l’Arte Cinetica e Programmata, si afferma il Nouveau Réalisme.
In questo vorticoso crescendo culturale Squatriti individua la sua dialettica degli opposti, sperimentando codici che ancora oggi la distinguono: procede per contrasti formali, materici e cromatici, elabora forme paradossali come  “macchine” del pensiero, mettendo in scena installazioni stranianti, in bilico tra il naturale e l’artificiale, con l’obiettivo di creare ossimori di forte impatto visivo. Con il passare del tempo, la sorpresa, la fantasia, l’elemento ludico e giocoso impresso nelle sue forme eccentriche, connaturate alle prime sculture colorate e alla giovinezza, sono sostituite dalla ragione  vampirizzata  dall’esperienza del dolore, filtrata  dalla sofferenza e dalla  maturità.
La sua vita, gli umori e gli stati d’animo si visualizzeranno in strutture costruttiviste, rigide, squadrate, già dai primi anni ’70, come sintesi  di un processo di riduzione che approderà, fino alla metà degli anni ’80, a forme  neocostruttiviste in ferro che abbandonano ogni indulgenza piacevole, affidando la forma al rigore monocromatico del ferro e dell’acciaio. Le sue opere  di quel periodo plasmano “emozioni fredde”, sono il frutto di calcoli  matematici che sfociano in forme geometriche, alla ricerca del volume ideale in rapporto allo spazio, con l’intento di approfondire  la percezione delle sovrapposizioni di strutture primarie tagliate e ribaltate come fogli di carta, e invece sono volumi che in questo modo danno vita ad equivalenze, immaginarie, nel vuoto.
L’analisi, la proporzione compositiva, la “squadratura” del concetto si sostituiscono alla decorazione del periodo giovanile e il pieno darà  spazio al vuoto, attraverso complesse installazioni che dialogano con lo spazio. Parallelamente alle sculture, anche le sue poesie, che mai si affidano all’utilizzo di romanticheggianti sensazioni personali, sono scandite da sentenze più che da versi, sono aforismi lapidari che feriscono la ragione.
Squatriti poeta e scultrice inventa forme plurime che provocano paradossi, attese, enigmi, coinvolgendoci all’interno della sua vitalità sospesa.
Nel ciclo denominato “In segno di natura“ (1988-89) Squatriti, che riprende nelle sue mani il linguaggio della pittura e della grafica, inizia ad adottare la soluzione del dittico e dalla speculazione astratta sullo spazio che si concretizza in forme chiuse, geometriche, ideali e assolute, e introduce temi di origine letteraria e speculativa, filosofica, come quello iniziale della Natura, simbolo dell’origine della vita, violata e stuprata dalla “cattività” umana. In questo periodo le sue opere sono basate sull’assemblaggio plastico–cromatico e risolte in combinazioni e sovrapposizioni di immagini, affiancate da volumi primari, ossessivamente elaborate come espressione di una metaforica logica di smascheramento della fragilità umana: la ragione che ordisce distruzioni “ad interim”, altalenante tra catastrofe e costruzione.
Nella serie “I segni del conflitto“ (1990-92), compare la fotografia come “collante” tra l’immagine e il volume scultoreo e il tema della “banalità del male” sarà declinato in diversi cicli, fino ad oggi.
La fantasia ha lasciato il posto alla razionalità e l’ironia diventerà cinico e dolente sarcasmo (ancora una volta ossimoro) del suo desiderio di indagare l’istinto del male connaturato all’uomo, inseguendo autopsie di Bellezza possibile e irraggiungibile.
Ma torniamo alle opere degli anni Sessanta esposte ad Assab One di Milano, al commento di Dorfles che, in occasione delle sue prime sculture colorate, di lei scrisse: “Questo connubio tra elementi dall’aspetto altamente tecnologico e macchinoso -netti e politi, in perspex e acciaio inossidabile- e le escrescenze, le proliferazioni decorative di festoni e ghirlande solidificate, distrugge ogni prevedibile forma dell’oggetto e gli conferisce una natura equivoca tra il biologico e il meccanico”. (nota 1)
Dal 1967 le sue sculture si focalizzano sulla dialettica tra volume geometrico e forme più libere e cromaticamente ammiccanti, abbinando soluzioni euclidee a figure irregolari, escrescenze acuminate e germinanti con richiami involontari a Depero, assai più giocoso, alla maniera del “Corrierino dei piccoli”, ma specialmente a Balla, anche se gli intenti sono diversi, così come lo è la tecnica usata.
Claudio Cerritelli, nella monografia edita da Mazzotta dedicata all’artista, le  ha così commentate:  “Più che sculture, in questa fase di ricerca, Squatriti realizza oggetti fantastici, personificazioni di umori sensoriali, desideri mentali che diventano tangibili, sensazioni erotiche che galleggiano tra un pensiero e l’altro, alla ricerca di una possibilità di racconto, di mediazione tra il soggetto creativo e il lettore. I colori usati richiamano spesso odori o profumi, alludono al gusto dell’olfatto, all’atto di toccare e di sentire il fruscio che l’aria produce tra un materiale e l’altro, mettendo in azione una totalità di percezioni che si usa chiamare sinestesia” (nota 2)
Questa brillante sintesi dell’autore di un testo analitico dedicato alla sua ricerca analizzata dal 1957 al 2001, evidenzia l’intento narrativo dell’artista già nella scultura, rivelandosi nel tempo  sempre più ambigua  nella sua ricerca poetica. L’autrice da una parte tende a un ordine costruttivo, percettivo e analitico, ma dall’altra ricerca narrazioni possibili tra forme e colori attraverso combinazioni figurative in bilico tra razionalità ed erotismo, espresso senza ricorso alle immagini deputate all’erotismo. Questa poetica  della dialettica tra gli opposti si svilupperà in una serie di opere razionaliste e barocche al tempo stesso, cariche di una tensione sensuale di “berniniana”  memoria, in cui il rigore costruttivista si unisce al valore decorativo e la freddezza diventa erotismo. Nella lucida e spietata logica matematica di combinazioni di algida bellezza, Squatriti ibrida il quadrato di Malevic e di Sol Lewitt con disordini umani: la casualità e la natura sono rappresentate da reperti organici, contrapponendo forme molteplici, prelievi fotografici anche di particolari ingranditi in modo da fare loro perdere riconoscibilità per entrare in un mondo evocativo diverso dal reale da cui sono partiti, in contrapposizione con forme geometriche appositamente studiate, che ne rappresentano la sintesi simbolica.
Squatriti si riconosce proprio per questo pluralismo segnico che, nel bene  e nel male, non si dimentica.
Questa originalità è una dote rara nel panorama contemporaneo, in cui si  trovano soluzioni formali date come anonime banalizzazioni delle  avanguardie storiche o come nostalgiche rivisitazioni del passato più recente.
Il suo operare sui materiali e sulla forma per definire il pensiero visivo e lo spazio dell’interiorità, diventa linguaggio autoreferenziale e si riconosce anche per la sua capacità di affrontare lo stesso tema iconografico, declinato in molteplici variazioni; tutti i suoi cicli materializzano l’essenza e l’energia delle forme in rapporto tra volume e immagine, segno e significato, all’insegna di una dialettica tra lo spazio e lo spettatore, mettendo a fuoco una maniacale ricerca dell’origine delle cose e del loro significato simbolico.

ASCOLTA IL  TUO CUORE CITTA’

Nella serie intitolata “Ascolta il tuo cuore, città”, liberamente ispirata al romanzo di Alberto Savinio pubblicato nel 1944, alla vigilia dei più pesanti bombardamenti sulle città, esposta per la prima volta ad Assab One di Milano, dopo una anticipazione alla “Fondazione Calderara” di Vacciago, per  Squatriti la città diventa il presupposto di un viaggio onirico nello spazio e  nel tempo, surreale, fino al cuore della metropoli, esangue e rantolante  dopo una apocalisse. Si tratta di appunti di viaggio, un presupposto poetico scritto con le immagini e gli oggetti che raccontano la solitudine della umanità e delle sue bellissime città così genialmente costruite, abbandonata al destino di essere vittima e carnefice di un mondo da lei stessa creato, sbagliato, ma anche grandioso, ponendo gli oggetti in relazione alle immagini. Tanto dolore produce la bellezza, e il suo declino. Come al solito l’artista è coerente e rispetta il rigore compositivo e l’unità del molteplice, ma ci sorprende per una leggera asimmetria che rivela cambiamenti in atto; compaiono elementi storti, piani inclinati nella  composizione, creando disagi e ossimori visivi. Ogni oggetto oltre ad appagare la sua vocazione plastico–volumetrica, esalta la funzione  narrativa e simbolica dell’opera, facendo dialogare diversi materiali, elevati a soggetti di storie di città. Forse qui, Mosca, Praga, Parigi, L’Aquila, Milano, Bratislava, Venezia, una ignota città tedesca degli anni di prima della guerra, e chissà quali altri luoghi urbani, non è molto importante la loro riconoscibilità, sono rappresentati immobilizzati, diventano recuperi affettivi, con trittici e dittici di forte impatto emozionale. Le sue città stranianti, rarefatte ed estetizzanti, ci proiettano in un eterno passato e diventano potente metafora dell’uscita dalla storia del mondo occidentale, paventato ma non improbabile.
In questa serie Squatriti usa tre elementi base: geometria compositiva nella organizzazione della molteplicità, fotografia come mediazione tra l’oggetto e la scultura, mentre presenta gli oggetti come rielaborazione di reperti della quotidianità, incorniciati dentro a scatole “poveriste” realizzate ex-novo con vecchie assi e legni bruciati.
Il tempo ha agito sugli oggetti: questi stanno entro scatole della memoria volutamente irregolari, pensate come contenitori di reliquie ma costruite troppo in fretta e con materiali improvvisati, reperti dell’umanità, fissati nel ricordo da consegnare all’eternità dentro le loro piccole bare.
La  tensione geometrica costruttivista dell’artista polisegnica, affiancata da elementi asimmetrici dell’incompiuto, così come del trascurato e distrutto,  segna un passaggio importante nella evoluzione del suo lavoro, sempre più  letterario e metamorfico, quasi “bergsoniano”, intriso com’è di vita e di passioni. La vita è essenzialmente disordine. Squatriti, dopo trent’anni di rigide impalcature e razionalismi vari, sostegno, forse, a difficoltà esistenziali da inghiottire diligentemente, dopo aver percorso il tunnel della sofferenza personale, della morte di persone care, del tradimento, dell’abbandono e della solitudine, elabora una scrittura sempre più  autobiografica, anche se della propria biografia non utilizza le figure; e attraverso questa dolorosa autoanalisi, che dal dolore personale si estende a quello del mondo cui prestare la maggiore attenzione, lentamente agirà anche sulle opere, smantellando le solide certezze e la pretesa, del tutto utopica e riconosciuta come tale dall’artista già nel momento suo del fare,  di ordinare il caos, o almeno di mostrare come sarebbe bello che fosse, non tanto l’ordine del caos universale, ma quello del caos procurato per dolo; così inizia a decostruire se stessa. Si aprono le forme chiuse, le griglie e le prospettive, l’artista modifica le regole che si era imposta come assoluti  formali, ma senza perdere la vocazione compositiva e la sua identità di antropologa della cultura Occidentale. Osservando queste immagini di città  estetizzanti e metafisiche, percorriamo un viaggio a ritroso nel tempo, dove letteratura e arte si fondono in una relazione profonda e diventano memoria storica, stretta nella morsa della ricerca di Bellezza, come se l’Arte non fosse prodotta dagli uomini ma da esseri perfetti, superiori.
Le sue immagini iconizzano città dolenti, svuotate dai propri abitanti, questa volta esposte in un ex edificio industriale, neo cattedrale dell’estetica apocalittica contemporanea, e proprio in questo spazio, creato per produrre lavoro e rimastone privo, un relitto innocente oltre che eloquente, si caricano di significati simbolici. Osservando opere che parlano di abbandono in un luogo abbandonato e riconvertito ad altro uso senza cancellare le tracce del suo passato, ci assale una struggente e feroce rabbia per l’impegno che inesorabile si applica, a volte in nome del nuovo che avanza, per annullare la Bellezza, e proprio per questo le città rielaborate da Squatriti trasudano di un sensuale profumo di morte  e  freddezza neoclassica, che della morte aveva fatto la sua estetica.
L’artista si è immaginata intenta a raccogliere in fretta alcuni  reperti della  nostra civiltà industriale, tracce di “tempi  moderni ” alle soglie di una possibile apocalisse universale; e forse è l’ultima supersite del genere umano e a questo punto urge conservare un segno, a futura memoria.
Squatriti agisce sul disagio visivo attraverso ossimori e rielaborazioni  della  memoria, passando al setaccio il significato che gli oggetti suscitano, una volta distolti dalla loro funzione; in questo lavoro è “proustiana” nella frantumazione del linguaggio dadaista e di Joyce, i tre linguaggi rivoluzionari del secolo scorso, della “modernità” sulla quale ancora stiamo lavorando, pur essendo poco propositivi. L’autrice, antropologa dell’espressione, spiazza lo spettatore con combinazioni volutamente nostalgiche, con immagini dall’atmosfera livida agghiacciante come la  Morte. Nella sua ricerca di uno Spazio eterno e del Tempo, trova  testimonianze, ricordi di cultura materiale e di armonie perdute sotto gli strati dell’odio, non per scrivere una storia della città, ma per immobilizzare un’icona luttuosa della nostra civiltà da compiangere per molti suoi aspetto degenerativi.
La sua città è fuori dalla storia, è immobile, metafisica e immanente, rappresentata con fotografie simili a quelle che si trovano sulle tombe dei cimiteri “gotici”, dove tutto è ordine, calma, stabilità  e l’atmosfera è di triste e poetica bellezza.
Si tratta di installazioni ripartite in tre parti distinte, accorpate in un insieme irregolare ma studiatissimo, realizzate con foto digitali su carta da disegno, parti dipinte a mano a pastello, pigmento e altro, più le scatole di vecchi legni, asimmetriche, costruite in modo rozzo per contenere oggetti perfetti, in resina, gesso, fiori secchi, legni  bruciati, velluti e sete, conchiglie, foglie, reperti affettivi, antiche macchine fotografiche, flaconi che si suppone abbiano contenuto importanti liquidi. Gli oggetti sono composti come una natura morta di morandiana memoria, compresi i guanti da lavoro, intrisi di nero pece, forse intrisi di petrolio. In particolare emoziona una zolla  di terra  pietrificata, ordinatamente disposta nella sua scatola–bara: questi e altri reperti inquietano nella loro necrofila e struggente bellezza.
In questo ciclo di opere Squatriti adotta per la prima volta la tecnica di ingessatura degli elementi organici rivestiti di un bianco innaturale, e in questa  personale rivisitazione della Natura morta l’artista immobilizza la vita. I suoi Still-life congelano il racconto di una civiltà post-moderna sepolta sotto ceneri di memoria pompeiana, qui provocate da ipotetiche  esplosioni atomiche, ammantate da nubi tossiche.
Forse sono istantanee di un eterno presente, dell’Apocalisse imminente?
Sono un iperbolico reportage, all’artista è lecito perfino esagerare, drammatico nella sua fredda esposizione di fatti relativi a una città  dei morti.
In questa serie Fausta, animale di vita passionale & Squatriti, giudice e chirurgo plastico della ragione, sono gemelle separate ma unite e  procedono una stretta all’altra, per contrasti, legate visceralmente dalla volontà di raccontare utopia di bellezza servendosi di poesia, racconto, immagini e forme che trascrivono pensieri visivi rielaborando in chiave soggettiva il ready-made duchampiano, mutando agli oggetti veri la faccia sia facendone calchi da rendere in seguito in resina, sia con altri sistemi di manipolazione, recentemente attraverso il gesso, per lasciare la verosimoglianza spiazzante a oggetti di materia altra dal vero.
Icaro tra cadute e voli; l’artista in conflitto tra l’elemento apollineo e quello dionisiaco, tra crisi mistiche etiche ed estetiche, attraverso lo strumento della Bellezza si fa medium della condizione transitoria dell’esistente.
Passeggiando davanti alle opere della Squatriti in mostra ad Assab One attraversiamo secoli di Storia in pochi minuti e mi viene in mente la voce  fuori campo, attrice protagonista e invisibile del film “L’Arca  Russa” (2002) di Alexander Sokurov, che dice: “ Apro gli occhi e non vedo niente. Nessuna finestra, nessuna porta…ricordo che è accaduta una disgrazia e tutti si mettevano in salvo come potevano”.

What is the purpose of juxtaposing Fausta Squatriti’s Pop sculptures from the 1960s with the 2011 series Listen to Your Heart, City, works that seem so distant in time, themes, materials, and visual combinations?
The choice reveals itself in guiding critical discourse toward recognizing consistency not primarily in style—frequently evolving and transforming—but rather in the very concept of creativity itself: a continual search for the most suitable form of expression throughout the changing phases of her personal experience and evolving awareness.

Energy, tension toward the unnatural, the illogical, imbalance, and the merging of opposites—these elements permeate Squatriti’s entire body of work. They are the crucial link between the colorful sculptures of the 1960s and the far more dramatic creations of 2011, presented together, in dialogue and synthesis, at the exhibition at Assab One.

We must therefore embrace her dual identity as a sculptor—having started from painting and from the sensitive, informal drawing of her early years—driven by an obsession with solid volumes and the desire to shape geometric proportions in symbiosis with poetry and writing. These arts, which Squatriti has always practiced, materialize paradoxes through the polyvalent languages she so skillfully employs.

Words, like her “sharp-edged” volumes, serve as instruments of ambivalence, interpretation, narrative, and semantic ambiguity. Beginning in 2002, the artist encapsulates them within complex installations designed to “anatomize” thought—translating it into gestures that give form to what does not exist in nature—highlighting the relationship between form, image, and their original source: the conceived word.
Yet this research truly began as early as 1985, when Squatriti first started to relate surface to volume, photographic realism to geometric abstraction, creating works of large dimensions.

Let us proceed in order. In the 1960s, Fausta was in her twenties—beautiful, vibrant with youthful enthusiasm, and a leading figure in Milan, then the capital of avant-garde art, design, publishing, and fashion, all flourishing as cultural phenomena.
She moved in circles that included Lucio Fontana, Alik Cavaliere, Arnaldo and Giò Pomodoro, Baj, Dangelo, Sanesi, Alviani, Arturo Schwarz, and many other artists of the era. Critics such as Guido Ballo, Gillo Dorfles, and later Giulio Carlo Argan and Umbro Apollonio took an interest in her work and became her friends.
Through exchanges with these “masters,” she sought direct confrontation as a means to grow faster in her insatiable artistic pursuit of knowledge and experience. She wove connections with poets such as Sanesi, Quasimodo, Finzi, and Gramigna, developed a deep passion for Anglo-Saxon poetry—especially Eliot and Dylan Thomas—illustrating their texts, and, often accompanied by her mother, the poet Lina Angioletti, moved among young artists, poets, intellectuals, and musicians. She captivated the masters and charmed her contemporaries.In 1960, she held her first solo exhibition, and just four years later, in collaboration with Sergio Tosi, she founded a publishing house specializing in limited editions and multiples—a remarkable opportunity that opened the door to international contacts. The renowned gallerist Alexander Iolas exhibited her sculptures in Geneva and New York, entrusting her with the design of catalogues and posters for his galleries. During this time, she met and became friends with Man Ray, who in turn introduced her to Marcel Duchamp.
As a publisher, she collaborated with figures such as Fontana, Max Ernst, Pol Bury, Cy Twombly, Louise Nevelson, and many others.
Her home-studio became a gathering place for Jean Tinguely, Niki de Saint-Phalle, Jesús Rafael Soto, Joe Tilson, Evelina Schatz, and a host of artists and intellectuals passing through Milan, at a time when the city was a thriving hub of creative innovation and a magnet for those eager to breathe the air of the new.

At her first exhibition, still a student at the Brera Academy in 1960, she presented only drawings.

Shortly thereafter, her works grew larger in scale and increasingly complex, particularly through her innovative use of pastels, from which she extracted previously unseen tonal variations.

In the introductory text for her 1964 solo exhibition, Gillo Dorfles described them as “cosmic or microcosmic ur-forms.” In 1965, she began working in thematic cycles—a practice she has never abandoned and that has become a hallmark of her approach—with the aim of increasingly refining the relationship between different languages and modes of expression made possible by the innovative spirit of the twentieth century, embracing the blending of genres. She created the series Bagno d’aria (1965–66), inspired by the spaciousness and luminosity of Tiepolo’s paintings—large canvases painted in tempera grassa, some of which were set within old frames.
Here, for the first time, a real object appeared in her works—not as a ready-made but as a deliberate element of contrast and disorientation between the painting and its frame, with the explicit aim of blending art and life. Beginning in 2005, her reinterpretation of objets trouvés through a linguistic pluralism became both a methodological and poetic practice, gradually replacing the rigorous geometry and mathematical calculation of surfaces and volumes that characterized her earlier work. In 1966, Fausta, still primarily a painter, ventured into the realm of colorful sculpture, produced by others using more industrial than artisanal techniques, and finished with spray lacquer—a highly avant-garde method at the time, particularly in Italy, where skepticism still prevailed over whether a woman, especially one who was beautiful and from a good family, could truly be considered an artist.

Even when someone as brilliant as Lucio Fontana departed from marble or bronze, eyebrows were raised.

Nonetheless, Fausta’s work captivated both audiences and critics, first in Stockholm, then in New York, Houston, Caracas, Tel Aviv, and Geneva, through her uniquely personal way of giving form to her multifaceted desire for physicality, enriched by decorative chromatic temptations inspired by Pop Art. Like all the artists of that unrepeatable generation, she combined, mixed, and boldly juxtaposed industrial materials (such as steel, lacquered iron, plexiglass, and polyester) with traditional ones (iron, wood, copper).Meanwhile, America was captivating Europe with the emergence of Pop Art and Minimalism. In Milan, following Spatialism and Kinetic and Programmed Art, Nouveau Réalisme was taking hold. Amidst this whirlwind of cultural ferment, Squatriti identified her own dialectic of opposites, experimenting with visual codes that continue to distinguish her work to this day.
She moved through formal, material, and chromatic contrasts, developing paradoxical forms like “machines” of thought, staging disorienting installations poised between the natural and the artificial, with the aim of creating powerful visual oxymorons. As time passed, the sense of surprise, fantasy, and playful spirit that infused her eccentric early colorful sculptures—so deeply connected to her youth—gradually gave way to reason, now vampirized by the experience of pain, filtered through suffering and maturity. Her life, moods, and states of mind began to manifest in constructivist structures—rigid, angular forms—already in the early 1970s, as the result of a process of reduction that would, by the mid-1980s, lead to neo-constructivist iron works, abandoning any indulgence in pleasantness and entrusting form to the monochromatic rigor of iron and steel. Her works from this period embody “cold emotions,” the result of mathematical calculations that culminate in geometric forms, a search for the ideal volume in relation to space, aimed at deepening the perception of overlapping primary structures—sliced and overturned like sheets of paper—thus creating volumes that generate imaginary equivalences in the void. Analysis, compositional proportion, and the “squaring” of concepts replaced the decorative impulses of her early period. Fullness gave way to emptiness, articulated through complex installations that engage in dialogue with the surrounding space. Alongside her sculptural practice, her poetry also evolved, never relying on romanticized personal feelings but instead articulated through statements more than verses—sharp, lapidary aphorisms that wound reason itself. As both poet and sculptor, Squatriti invents multiple forms that provoke paradoxes, awaken expectations, and generate enigmas, drawing us into the suspended vitality of her universe.

In the series In Sign of Nature (1988–89), Squatriti returned to the languages of painting and graphics, adopting the diptych format.
From her abstract speculations on space, she concretized closed, geometric, ideal, and absolute forms, introducing literary and philosophical themes, such as the primal notion of Nature—symbol of life’s origins—violated and ravaged by human “badness.” During this period, her works were based on plastic-chromatic assemblage, resolved through combinations and superimpositions of images alongside primary volumes, obsessively elaborated as a metaphorical expression of the unveiling of human fragility: a reason that conspires to create “interim” destructions, swinging perpetually between catastrophe and construction. In the series The Signs of Conflict (1990–92), photography appeared as a “bond” between image and sculptural volume, and the theme of the “banality of evil” would be explored across several cycles, continuing up to the present day. Imagination gave way to rationality, and irony evolved into a cynical and sorrowful sarcasm—yet another oxymoron—expressing her desire to investigate the instinct for evil inherent in humankind, pursuing autopsies of a Beauty that is both possible and forever unattainable. But let us return to the 1960s works exhibited at Assab One in Milan, and to Gillo Dorfles’ commentary on her early colorful sculptures, in which he wrote:
“This fusion of highly technological and mechanical-looking elements—sharp and polished, in Perspex and stainless steel—with the decorative proliferations of festoons and solidified garlands destroys every predictable form of the object and bestows upon it an ambiguous nature, somewhere between the biological and the mechanical.”
Starting in 1967, her sculptures increasingly focused on the dialectic between geometric volumes and freer, more chromatically playful forms, combining Euclidean solutions with irregular figures, pointed and germinating outgrowths that evoke, albeit unintentionally, the work of Depero—much more playful, in the manner of Il Corrierino dei Piccoli—but especially of Balla, even though Squatriti’s intentions and techniques differ markedly.

Claudio Cerritelli, in the monograph published by Mazzotta dedicated to the artist, commented:

“More than sculptures, in this phase of her research Squatriti creates fantastic objects—personifications of sensory moods, mental desires made tangible, erotic sensations that drift between one thought and another, seeking a possibility of narrative, a mediation between the creative subject and the viewer.” The colors she employed often evoked smells or fragrances, alluding to the sense of smell, to the act of touch, and to the sound of air rustling between different materials—activating a totality of perceptions commonly referred to as synesthesia. This brilliant synthesis by the author of an analytical study covering her work from 1957 to 2001 highlights the narrative intent already present in Squatriti’s sculpture, revealing itself over time in an increasingly ambiguous poetic pursuit.
On one hand, the artist gravitates toward a constructive, perceptual, and analytical order; on the other, she seeks possible narratives through forms and colors, crafting figurative combinations poised between rationality and eroticism—expressed without resorting to traditional erotic imagery. This poetics of the dialectic between opposites would evolve into a series of works that are simultaneously rationalist and baroque, charged with a sensual tension reminiscent of Bernini.
Here, constructivist rigor merges with decorative richness, and coldness transforms into eroticism. Within the clear and ruthless mathematical logic of combinations marked by icy beauty, Squatriti hybridizes the square of Malevich and Sol Lewitt with human disorder: randomness and nature are represented through organic remnants, set against multiple forms and photographic excerpts—often enlarged to the point of losing recognizability—thus entering an evocative world far removed from the reality they originated from, and juxtaposed with purposefully designed geometric forms that serve as their symbolic synthesis.Squatriti is immediately recognizable for this sign-based pluralism—something that, for better or worse, is impossible to forget. This originality is a rare quality in today’s contemporary art scene, where formal solutions often appear as anonymous banalizations of the historical avant-gardes or as nostalgic revivals of the more recent past. Her work with materials and form to define visual thought and the space of interiority becomes a self-referential language, also recognizable through her ability to approach the same iconographic theme across multiple variations.

Each of her cycles materializes the essence and energy of forms in the interplay between volume and image, sign and meaning, always driven by a dialectic between space and viewer, and by a near-maniacal search for the origin of things and their symbolic meaning.
ASCOLTA IL TUO CUORE, CITTA’
In the series titled Ascolta il tuo cuore, Città, loosely inspired by Alberto Savinio’s 1944 novel—written on the eve of the heaviest bombings over European cities—Squatriti presents the city as the starting point for a surreal, dreamlike journey through space and time, to the very heart of a metropolis left bloodless and gasping after an apocalypse.
First previewed at the “Fondazione Calderara” in Vacciago and then exhibited at Assab One in Milan, the project takes the form of travel notes—a poetic premise composed through images and objects—that narrate the solitude of humanity and of its beautifully constructed cities, now abandoned to the fate of being both victim and executioner of a world it created: flawed, yet magnificent.
In doing so, Squatriti places objects in direct relationship with images.
So much pain gives rise to beauty—and to its decline.
As always, the artist remains consistent, maintaining compositional rigor and unity within multiplicity, yet she surprises us with a subtle asymmetry that reveals changes underway: skewed elements and tilted planes appear within the compositions, creating dissonances and visual oxymorons. Each object, beyond satisfying its plastic and volumetric vocation, enhances the narrative and symbolic function of the work, creating a dialogue among various materials—now elevated to protagonists of urban stories. Perhaps here we find Moscow, Prague, Paris, L’Aquila, Milan, Bratislava, Venice, an unknown German city from before the war, and who knows how many other urban places.

Their recognizability is not what matters: they are portrayed as immobilized, transformed into emotional recoveries, arranged in powerful triptychs and diptychs. Her disorienting, rarefied, and aestheticized cities project us into an eternal past, becoming a powerful metaphor for the potential—though not improbable—departure from the history of the Western world.In this series, Squatriti employs three fundamental elements: compositional geometry to organize multiplicity, photography as a mediation between object and sculpture, and the presentation of objects as reworked relics of everyday life, framed within “Arte Povera”-style boxes, newly constructed from old planks and burned wood. Time has left its mark on the objects: they rest within memory boxes, deliberately irregular, conceived as reliquary containers hastily assembled from improvised materials—relics of humanity, fixed in memory and destined to be delivered to eternity within their small coffins. The constructivist geometric tension in Squatriti’s multifaceted practice, accompanied by asymmetric elements of incompletion, neglect, and destruction, marks an important evolution in her work—becoming increasingly literary and metamorphic, almost “Bergsonian” in spirit, steeped as it is in life and passion.

Life is, at its core, disorder.

After thirty years of rigid frameworks and various forms of rationalism—perhaps as a support to diligently endure existential difficulties—Squatriti, having traveled through the tunnel of personal suffering, the death of loved ones, betrayal, abandonment, and loneliness, developed an increasingly autobiographical form of expression, even though she never directly depicted her personal story through figurative means.

Through this painful self-analysis—extending from personal anguish to a broader empathy for the world’s suffering—she gradually acted upon her works, dismantling the solid certainties and the utopian (and already self-recognized) illusion of imposing order on chaos, or at least of showing how beautiful it might be if possible—not the order of universal chaos, but that created by human wrongdoing.

Thus began the deconstruction of herself: closed forms, grids, and perspectives opened up; the artist modified the formal absolutes she had once imposed upon herself, without ever losing her compositional vocation or her identity as an anthropologist of Western culture. Observing these aestheticized and metaphysical images of cities, we embark on a journey back through time, where literature and art merge in a profound relationship, becoming historical memory—caught in the grip of the quest for Beauty, as if Art were not the product of human hands but of perfect, superior beings. Her images iconize grieving cities, emptied of their inhabitants, this time displayed within a former industrial building—a neo-cathedral of contemporary apocalyptic aesthetics.

In this space, once created to produce labor and now abandoned—a silent and innocent relic—their symbolic meanings are amplified.

Observing works that speak of abandonment within an abandoned and repurposed space—one that still bears the traces of its past—we are struck by a poignant, fierce anger at the inexorable force—sometimes in the name of progress—that erases Beauty. For this reason, Squatriti’s reimagined cities exude a sensual perfume of death and neoclassical coldness, aesthetics built upon death itself. The artist imagined herself hastily gathering relics of our industrial civilization—traces of “modern times” on the brink of a possible universal apocalypse; perhaps the last supersite of humanity, urgently preserving a sign for future memory. Squatriti engages visual discomfort through oxymorons and memory reworkings, sifting through the meanings objects provoke once stripped of their function. In this body of work, she is “Proustian” in her fragmentation of Dadaist and Joycean language—the three revolutionary tongues of the last century—and of “modernity” on which we still grapple, though often unproductive. The artist, an anthropologist of expression, disorients the viewer with deliberately nostalgic combinations and images whose pallid, chilling atmosphere evokes Death itself. In her quest for an eternal Space and for Time, she uncovers testimonies and memories of material culture and lost harmonies buried beneath layers of hatred—not to write a city’s history, but to freeze a mournful icon of our civilization, lamentable in many of its degenerative aspects.Her city stands outside of history—motionless, metaphysical, and immanent—portrayed using photographs akin to those found on the tombstones of “Gothic” cemeteries, where everything embodies order, calm, stability, and an atmosphere of mournful, poetic beauty.

These installations are arranged in three distinct sections, combined into an irregular yet meticulously composed whole. They are executed with digital photographs on drawing paper, hand-painted sections in pastel, pigment, and other media, alongside asymmetrical old-wood boxes crudely constructed to house immaculate objects rendered in resin, plaster, dried flowers, charred wood, velvet, silk, shells, leaves, sentimental artifacts, antique cameras, and bottles once believed to contain precious liquids. The objects are composed like Morandi-esque still lifes—including work gloves imbued with a tar-black patina, perhaps oil-soaked. A particularly moving piece is a petrified clod of earth, meticulously placed within its coffin-like box: these and other relics unsettle with their necrophilic, poignant beauty. In this cycle, Squatriti adopts for the first time the technique of plaster-coating organic elements in an unnatural white. In this personal reimagining of still life, the artist immobilizes life itself. Her still lifes freeze the narrative of a post-modern civilization buried beneath Pompeian ashes—here evoked by hypothetical atomic explosions, shrouded in toxic clouds. Perhaps they are snapshots of an eternal present, of an imminent Apocalypse?

They form a hyperbolic reportage—where the artist even permits exaggeration—dramatic in its cold presentation of events pertaining to a city of the dead. In this series, Fausta—creature of passionate life—and Squatriti—judge and plastic surgeon of reason—stand as separated yet intertwined twins, bound by contrasts, united viscerally by the will to depict a utopia of beauty through poetry, narrative, images, and forms that transcribe visual thoughts in a subjective reinterpretation of Duchampian ready-mades, altering real objects either by making molds later cast in resin or by other manipulation techniques—recently including plaster—to leave behind a startling semblance of things foreign to the real. Icarus amid falls and flights; the artist, torn between Apollonian and Dionysian elements, between mystical, ethical, and aesthetic crises, becomes a medium of the transient condition of existence through the instrument of Beauty. Walking before Squatriti’s works on display at Assab One, we traverse centuries of history in a matter of minutes. I recall the off-screen voice—of the unseen lead actress—in Alexander Sokurov’s film Russian Ark (2002), who says:

“I open my eyes and I see nothing. No window, no door… I remember there was a tragedy, and everyone was scrambling to save themselves as best they could.”

Note:
1 G.Dorfles, The Cloud-Eye, libro pubblicato in occasione della  mostra personale alla Kozmopolitan Gallery a  New York, 1969

2. Claudio Ceritelli, “Squatriti, fino all’ultimo  sangue i percorsi della ragione 1957-2001” , pag 11-12 , Mazzotta 2002

Text by Elisabetta Longari

Ogni ciclo di opere di Fausta Squatriti è un Requiem, anche quest’ultimo.
Non c’è posto per la speranza, tutto da molto tempo, forse da sempre, è calcinato e votato alla sparizione. Grigio. Arso. Cinereo.
E l’effetto sembra essersi ulteriormente rafforzato da quando Squatriti rivolge il proprio sguardo apocalittico di Medusa verso la città, luogo della vita pulsante anche aldilà del mito progressista e futurista; si pensi all’ipnotico Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, alla filmografia di Wenders, soprattutto ad Alice nelle cittàTokyo-GaIl cielo sopra Berlino e Lisbon Story, in cui anche i luoghi più fantasmatici sono comunque teatro di movimenti, fisici e interiori, di spostamenti e metamorfosi delle persone; perfino nel fosco futuro figurato in Blade Runner la città è sinonimo di brulichio e d’intrecci di esistenze.
Non presso Fausta Squatriti. Qui, nel suo regno, la città ha perso ogni presenza viva, non una persona, un cane, un uccello, neppure un topo. Restano gli edifici, scenari tetri e belli, disadorni e terribili.
Il sentimento che cresce nell’osservatore è quello della pietas, della tenerezza: ormai lasciati soli, i luoghi risultano anch’essi come morti, sembrano gabbie vuote, tagliole abbandonate su un terreno arido. Neanche quegli elementi che presentano uno spiccato aspetto ludico, come le piccole case-giocattolo, riescono a essere vagamente gioiosi, anzi perfino più tragici delle costruzioni di pietra scura.
Nonostante il titolo scopertamente preso in prestito da Savinio, non v’è traccia della sua ironia e della sua leggerezza, piuttosto questo riferimento sembra quasi nascere dall’intenzione di porre una sottolineatura “al contrario”, proporre un rovesciamento d’atmosfere. Eppure l’esprit (inteso come humor) abita trionfalmente la scrittura dell’ultimo romanzo breve e inedito di Fausta, Istruzioni per l’uso. 7 rue meynadier, da cui è stata tratta una vivida pièce teatrale presentata per la prima e unica volta[1] nel cortile della Fondazione Calderara a Vacciago, sede che ospitava contestualmente una piccola selezione di opere del ciclo legato alla città[2].
Se il testo di Savinio si articola in una serie di divagazioni scaturite dall’incontro con determinati luoghi cittadini, Squatriti prende invece spunto dalle indicazioni sul viaggio necessario per raggiungere la sua minuscola e affascinante casa di Parigi e dalle istruzioni per soggiornarvi rivolte a qualche amico che vi si recasse per la prima volta. In realtà lo scritto, come una lunga lettera che riproduce senza censure l’andamento del pensiero, passa continuamente dal piano pratico e prosaico a quello emotivo e riflessivo, secondo un metodo simile alle libere associazioni. Più che delle funzioni di una casa si parla del funzionamento di un animo.
Tornando ai fantasmi di città presenti nelle opere visive recenti, Squatriti preleva dal grande repertorio delle immagini di qualsiasi agglomerato urbano, scorci, edifici o elementi funzionali al gioco di slittamento su cui verte il suo linguaggio, riconoscibilissimo, innegabilmente autonomo e originale. Nelle sue installazioni combina più elementi appartenenti ad ambiti mediatici diversi, ma negli esiti non v’è nulla di più lontano dalla sensazione di precarietà, data per esempio dall’improvvisazione; anzi i materiali si organizzano secondo un criterio che segue un ordine compositivo preciso e specchiato, in qualche modo “classico”, basato su accordi formali e dimensionali governati da una simmetria mai assoluta ma basata sul concetto di variazione nella contiguità e continuità. Un linguaggio che si avvale di una sorta di naturale perfezione-imperfezione, come la crescita organica, ad esempio, di un albero.
Il coro meticcio di forme, tecniche e materiali che da corpo composito, articolato e multiforme all’opera, è composto da diversi “attori”: la fotografia della realtà urbana, la geometria della pittura e la presenza di oggetti usurati, imprigionati in piccole bacheche/bare di legno povero, tracce, brandelli, residui di un’esistenza ormai perduta.
Dell’uomo perlopiù non v’è traccia, gli oggetti gli sono sopravvissuti come zombie dissanguati. Soltanto in un “viale del tramonto”, compare, di spalle, una figura maschile che si sta allontanando; accanto a lei si apre come un’ala nera, che più che costituire una minaccia sembra invece alludere alla figura dell’angelo, che in questo caso viene “letta” necessariamente come sul punto di lasciare, anch’essa, la dimensione del visibile.
I rari brani di natura che Fausta ha immesso nel dialogo visivo hanno dovuto affrontare un trauma che ne ha compromesso definitivamente la bellezza e la vitalità. Terra combusta, rami incrostati e ricoperti di patine malate.
Non sembra esserci via di scampo per l’umanità, che eppure avendo saputo inventare tanta bellezza, allo stesso modo compiutamente dimostra grande abilità nell’applicarsi alla distruzione, all’annichilimento.

Elisabetta Longari, settembre 2011

[1] Domenica 25 settembre 2011, Fondazione Calderara, interprete Alberto Lombardo.
[2] Dal 2 luglio al 15 ottobre 2011, in occasione del festival Studi Aperti 2011 organizzato da Asilo Bianco, Ameno.

Biography

Fausta Squatriti, nata a Milano nel 1941, opera nelle arti visive e nella scrittura, e di questo flusso tra un linguaggio e l’altro ha fatto da sempre il perno della sua ricerca, espressa anche nella editoria d’arte, nella grafica, nella docenza. Questo intreccio di interessi e relazioni fa di lei, già nei primi anni ’60, una  artista ed editore che si è rapportata con parecchi grandi protagonisti delle avanguardie internazionali, sia per rapporti di amicizia che di lavoro.  Scoperta inizialmente da Pierre Lundholm, che la espone a Stoccolma, in seguito lavorerà per anni con Alexander Iolas, Denise Renée e Karin Fesel, esponendo le proprie sculture a New York, Tel Aviv, Huston, Ginevra, Honolulu, Caracas, Dusseldorf, Parigi, e sucessivamente anche in Italia, al Naviglio, da Marconi e alla Fondazione Mudima. Inizia ad insegnare nel ’77 all’Accademia di Belle Arti, Carrara, Venezia e Brera, a Milano.
E’ più volte invitata come visiting professor all’Academie des Beaux Arts a Mons e alla University at Manoa, a Honolulu. E’ invitata  a numerose Biennali internazionali di grafica e vince due premi alla International Print Biennial di San Francisco.
È curatrice della mostra storica “Colore” alla Biennale di Venezia dell’86, e suoi saggi sull’argomento sono pubblicati nei relativi cataloghi.
Nel ’92 fonda, con Gaetano Delli Santi, la rivista interdisciplinare Kiliagono pubblicata All’Insegna del Pesce d’Oro.
Nel ’97 crea con Francesco Leonetti il Teatro dell’autore in scena, brevi testi di artisti e poeti appositamente scritti, impegnati a gestirne la recitazione senza ricorrere all’attore, che esordisce alla Fondazione Mudima, Milano, con successive prove nell’ambito di “Ricercare” a Reggio Emilia, a Venezia per il “Festival della parola”, a Milano per “Teatri ‘90”, Teatro Franco Parenti e di nuovo alla Fondazione Mudima.
Nel 2000 è tra i soci fondatori di Milanocosa,  partecipando a diversi reading poetici, anche in concomitanza con la “Giornata Mondiale di Poesia”.
Attualmente collabora con l’associazione culturale “Novurgia” e “Asilo Bianco”, organizzando eventi  interdisciplinari.
Nel 2002 è uscita una monografia, curata da Claudio Cerritelli e Roberto Borghi, edita da Mazzotta, con testi dei curatori e prefatta da Ingo Bartsch, con una ampia antologia critica di chi si è interessato alla sua ricerca, da Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio, Rossana Bossaglia, Jacqueline Ceresoli, Elisabetta Longari, Angela Madesani, Antonio Porta,  Mario Cresci, Michail Pogarskij, Arturo Carlo Quintavalle, Man Ray, Roberto Sanesi, Evelina Schatz, Arturo Schwarz, Klaus Wolbert.
Come poeta pubblica con Vanni Scheiwiller, Manni, Book, Testuale, Tracce e collabora con testi critici a numerose riviste d’arte e di letteratura.
Nel 2006 pubblica il romanzo “Crampi” ed. Abramo. All’occasione Simona Confalonieri realizza un breve filmato , “Audacissima”.
Nel 2008 è andato in scena a Parigi al teatro “Mains d’oeuvre” lo spettacolo di danza “The stillest”, coreografia di Eric Senen, per il quale ha creato l’immagine per la scena, con musica di Davide Anzaghi.
Nel 2010 è uscito per Charta la monografia “Ecce homo”, con testi di Evelina Schatz, Elisabetta Longari, Angela Madesani, Michail Pogarskij, in russo, inglese, italiano, all’occasione della personale al Moscow Museum of Modern Art. Nel 2010 ha esposto a Mosca, al Darwin Museum ed a Brartislava, nella mostra “Alla gloria militar”, e in numerose mostre dedicate al libro d’artista, a Kiev, Rostov on Don, Mosca, Londra, Milano.
Nel 2009 ha vinto il premio di poesia “Scrivere donna”, con “Filo a piombo”, prefazione di Gilberto Finzi, edizioni Tracce, Pescara. Sempre nel 2011 espone al Centre Pompidou, Paris, nella mostra “Elles”.
Nel 2011 espone in una personale alla “Fondazione Calderara”, Vacciago, Lago d’Orta.

Fausta Squatriti, born in Milan in 1941, works across the visual arts and writing. The continuous flow between these two languages has always been the pivot of her artistic research, expressed also through art publishing, graphic work, and teaching. This intertwining of interests and relationships has made her, since the early 1960s, an artist and publisher in dialogue with many key figures of the international avant-garde, through both friendships and collaborations. Initially discovered by Pierre Lundholm, who exhibited her work in Stockholm, she later worked for years with Alexander Iolas, Denise Renée, and Karin Fesel, exhibiting her sculptures in New York, Tel Aviv, Houston, Geneva, Honolulu, Caracas, Düsseldorf, Paris, and later also in Italy—at Galleria del Naviglio, Studio Marconi, and the Fondazione Mudima. She began teaching in 1977 at the Academies of Fine Arts in Carrara, Venice, and at Brera in Milan.

She was repeatedly invited as visiting professor at the Académie des Beaux-Arts in Mons and the University at Manoa in Honolulu. She was invited to numerous international print biennials and was awarded twice at the International Print Biennial in San Francisco.

She curated the historical exhibition Colore at the 1986 Venice Biennale, and her essays on the subject were published in the corresponding catalogues.

In 1992, together with Gaetano Delli Santi, she founded the interdisciplinary journal Kiliagono, published by All’Insegna del Pesce d’Oro.

In 1997, she created, with Francesco Leonetti, Il teatro dell’autore in scena (The Author’s Theatre Onstage), a project involving short texts written by artists and poets, who themselves perform the pieces without relying on actors. The project premiered at Fondazione Mudima in Milan and was later presented in Reggio Emilia as part of “Ricercare”, in Venice for the “Festival della parola”, in Milan for “Teatri ’90” at Teatro Franco Parenti, and once again at Fondazione Mudima.

In 2000, she became one of the founding members of Milanocosa, taking part in several poetry readings, including during the World Poetry Day.

She currently collaborates with the cultural associations Novurgia and Asilo Bianco, organizing interdisciplinary events.

A monograph edited by Claudio Cerritelli and Roberto Borghi was published by Mazzotta in 2002, with a preface by Ingo Bartsch and a wide-ranging anthology of critical writings on her work by figures such as Gillo Dorfles, Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio, Rossana Bossaglia, Jacqueline Ceresoli, Elisabetta Longari, Angela Madesani, Antonio Porta, Mario Cresci, Michail Pogarskij, Arturo Carlo Quintavalle, Man Ray, Roberto Sanesi, Evelina Schatz, Arturo Schwarz, and Klaus Wolbert.

As a poet, she has published with Vanni Scheiwiller, Manni, Book, Testuale, Tracce, and contributes critical essays to numerous art and literary journals.

In 2006, she published the novel Crampi (Abramo Edizioni). On this occasion, Simona Confalonieri created a short film titled Audacissima.

In 2008, the dance performance The Stillest, choreographed by Eric Senen, was staged at the “Mains d’Oeuvre” theatre in Paris. Squatriti created the stage image for the performance, accompanied by music by Davide Anzaghi.

In 2010, the monograph Ecce Homo was published by Charta, with texts by Evelina Schatz, Elisabetta Longari, Angela Madesani, and Michail Pogarskij, in Russian, English, and Italian, on the occasion of her solo exhibition at the Moscow Museum of Modern Art. That same year, she exhibited in Moscow at the Darwin Museum and in Bratislava in the exhibition Alla gloria militar, as well as in numerous exhibitions dedicated to artist’s books in Kyiv, Rostov-on-Don, Moscow, London, and Milan.

In 2009, she won the poetry prize Scrivere donna with Filo a piombo, prefaced by Gilberto Finzi and published by Tracce, Pescara. In 2011, she took part in the exhibition Elles at the Centre Pompidou, Paris.

That same year, she held a solo exhibition at the Fondazione Calderara in Vacciago, on Lake Orta.